È risaputo che le persone alle quali viene diagnosticata una patologia metabolica necessitano di apportare alcuni cambiamenti nelle proprie abitudini, in particolare correggendo lo stile alimentare, facendo più esercizio fisico e, lì dove necessario, seguendo una terapia farmacologica. È risaputo anche che conoscere queste cose non basta al diretto interessato affinché cominci a prendersi cura di se stesso.
Come mai?
Diversi sono i processi in atto in grado di ostacolare il cambiamento e, in assenza di reale impossibilità, si tratta di processi di natura cognitiva ed emotiva. In questo articolo ne vediamo uno in particolare, che sottende la capacità di dilazione della gratificazione.
Auto-controllo: si tratta solo di questo?
In un noto esperimento condotto a partire dalla fine degli anni ‘60, Walter Mischel ha testato la capacità dei bambini in età prescolare di resistere al richiamo di una gratificazione immediata.
Nel primo esperimento, 32 bambini di quattro anni furono messi in una stanza, uno per volta, con un marshmallow posto su un piatto di fronte a loro. Gli fu detto che potevano mangiare il dolcetto subito oppure, se avessero aspettato il ritorno del ricercatore dopo 15 minuti, avrebbero potuto avere due marshmallow.
La maggior parte dei bambini disse che avrebbe aspettato, ma non tutti lo fecero. Coloro che attesero i 15 minuti per avere due marshmallow sembravano saper resistere di più alla tentazione, mostrando un maggior autocontrollo…. Una migliore forza di volontà!
Ad essere particolarmente significative, sono le correlazioni rinvenute fra il comportamento dei bambini ed alcuni esiti rilevati nel lungo periodo: coloro che erano stati in grado di ritardare la gratificazione avevano molta meno probabilità di diventare obesi, tossicodipendenti o di sviluppare problemi comportamentali in età adolescenziale, conseguendo risultati accademici migliori e diventando adulti di successo.
Ma…
… una recentissima pubblicazione ha mostrato che non è l’autocontrollo a fare la differenza, ma il background economico. I bambini più poveri più probabilmente di quelli più agiati sceglievano di non attendere i 15 minuti. Tyler Watts e colleghi hanno costruito un campione più rappresentativo della popolazione generale. Lo studio originale di Mischel, infatti, comprendeva meno di 90 bambini, tutti iscritti ad una scuola materna di Stanford.
I ricercatori hanno, dunque, ampliato il campione a 900 bambini, rendendolo più rappresentativo della popolazione generale anche in termini di etnia, stile educativo e reddito medio. Secondo i ricercatori che hanno replicato lo studio, i bambini più poveri hanno imparato che qualcosa come il cibo può esserci oggi, ma non è detto che ci sia domani e che, dunque, è più conveniente “approfittare” del qui ed ora, che attendere qualcosa che non è detto che arrivi, anche se è stato promesso.
Oltre all’autocontrollo, è questione di fiducia nel futuro
La cosiddetta forza di volontà, dunque, è qualcosa che va oltre la capacità di resistenza, ma affonda le proprie radici in un atteggiamento mentale che considera l’occasione che abbiamo adesso una certezza, a discapito del prossimo futuro (il quale obiettivamente non è certo, ma quanto meno è prevedibile con una certa probabilità).
Facciamo un esempio
È altamente probabile che se trattiamo male il nostro corpo, mangiando male, non facendo attività fisica, fumando tanto e stressandoci, la nostra salute ne risenta. Così come mangiando bene, facendo attività fisica e prendendoci cura di noi stessi, aumentiamo le probabilità di godere di buona salute. Ma, in persone che considerano i vantaggi immediati una certezza ed il futuro a medio-lungo termine qualcosa di assolutamente imprevedibile e non certo, queste conseguenze secondarie vengono accantonate e non considerate, almeno non con la giusta importanza.
“Scarsità di cibo” in senso lato
Il cibo (o alcune categorie di cibi) può essere stato scarso nella vita di un paziente non necessariamente a causa di un’impossibilità economica e/o di una negligenza da parte di chi di dovere. Anche la cronicità di condotte alimentari restrittive, anche se altalenanti, crea l’illusione costante che l’accesso ad alcuni cibi sia un’eccezione. Questo, paradossalmente, ci porta a desiderare di più quei cibi che solitamente ci vietiamo e ad approfittare della prima occasione per farne scorpacciata.
Cosa può fare lo psicologo in questi casi?
Può fare tanto:
- Innanzitutto scoprire insieme al paziente l’eventuale presenza di questa educazione basata sulla “scarsità di cibo” (per motivi economici, a causa di diete o per altro) e/o sull’imprevedibilità del medio-lungo termine, attraverso l’auto-osservazione (emotiva, comportamentale e cognitiva)
- Aiutare il paziente a scardinare le cognizioni del tipo “adesso o mai più”, “si vive una volta sola”, e simili
- Sostenere il paziente nello sviluppo di un certo grado di tolleranza verso quella sensazione emotiva di “urgenza”
- Accompagnare il paziente a costruire un nuovo atteggiamento mentale, basato non sulla privazione, ma, al contrario, sull’immersione consapevole nell’esperienza non solo alimentare, ma anche corporea (yoga, nuoto, passeggiate, etc…)
- Cercare alleanza nei familiari, che troppo spesso adottano la politica del rimprovero e della mortificazione, nel tentativo di convincere il familiare a prendersi cura di sé (approccio che risulta, ovviamente, fallimentare)
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L’intervento psicologico sul comportamento alimentare di persone celiache, diabetiche e/o cardiopatiche
Docente: Teresa Montesarchio.
Dott.ssa Teresa Montesarchio
Psicologa e Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale
BIBLIOGRAFIA
Watts, T. W., Duncan, G. J., & Quan, H. (2018). Revisiting the Marshmallow Test: A Conceptual Replication Investigating Links Between Early Delay of Gratification and Later Outcomes. Psychological Science, 29(7), 1159–1177.
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