Ho ricevuto l’invito da parte di FCP a raccontare la mia esperienza lavorativa in Inghilterra da laureata in Psicologia e con piacere condivido con i colleghi il resoconto di un anno di vita all’estero, cercando di ripercorrere con ordine i passi che hanno segnato la mia strada e di fornire indicazioni utili per chi, dopo aver ottenuto la sudata corona d’alloro, abbia voglia di mettersi in gioco in un altro Paese.
Sono partita per il nord del Regno Unito con, in tasca, una laurea specialistica in Neuroscienze ed una intensa esperienza pratica sia di ricerca che di clinica in neuropsicologia. Avevo voglia di confrontarmi con un sistema che sapevo essere molto diverso da quello al quale ero abituata e, pur sentendomi un po’ spaesata a causa del divario linguistico e culturale col quale mi scontravo, ero consapevole che col tempo questa voglia avrebbe prevalso sulla paura di essere sola in un posto completamente nuovo. Quella iniziale – ho scoperto confrontandomi con colleghi di tutte le nazionalità – è una sensazione di smarrimento del tutto normale.
Nonostante avessi raccolto tutte le informazioni disponibili sul web, non avevo ancora chiaro l’uso che potevo fare del mio “master degree” (come in UK chiamano la nostra laurea specialistica). Per questo, una volta sul luogo, ho chiesto aiuto agli uffici di orientamento al lavoro, ma senza trovare risposte soddisfacenti: gli impiegati non riuscivano a inquadrare la mia formazione con le loro “carriere”.
D’altra parte, io volevo evitare di rivolgermi a quelle agenzie che, a pagamento, mi avrebbero fornito un “certificato di equivalenza del titolo”.
Il motivo? Sapevo che la mia laurea era riconosciuta in tutta Europa, la mia Università (Bologna) mi aveva rilasciato un certificato (comprensivo di esami) in lingua inglese e, secondo la BPS (BritishPsychological Society), avevo accesso a moltissime posizioni con la mia formazione (ero “eligible”, cioè candidabile, per l’iscrizione come “graduate member”, membro laureato).
Mi sono quindi rimboccata le maniche per rendere spendibile quello che avevo ottenuto in Italia (esperienza di anni di volontariato inclusa, in UK molto apprezzata!) ed il primo passo è consistito nella redazione di un buon CV. Ho iniziato, dunque, dal farne uno “personalizzato”: navigando il web, infatti, ho scoperto che in Inghilterra il cosiddetto “formato europeo” non è conosciuto né apprezzato.
Alla realizzazione del CV è seguita quella della “cover letter”, che altro non è che una lettera di presentazione in cui si spiegano brevemente le ragioni per cui ci si candida per una precisa posizione. Anche questa, come il CV, va indirizzata specificamente al datore di lavoro al quale ci si sta rivolgendo.
Un altro “requisito” che è necessario avere è quello delle referenze (references): di solito ne vengono richieste due. In poche parole, quando ci si candida (si fa “l’application”) per una posizione lavorativa vengono richiesti nomi e recapiti di persone (professionisti – non amici o parenti) che hanno lavorato con noi e che facciano, diciamo, da “garanti” di quelle stesse competenze che abbiamo dichiarato sul CV.
Con queste tre risorse nel cassetto ho dunque iniziato la ricerca pratica e attiva del lavoro e non è passato tanto tempo prima che mi chiamassero e mi offrissero un contratto full-time in un ospedale psichiatrico privato (“settore indipendente”, come lo chiamano loro, cioè diverso dal NHS che è il Sistema Sanitario Nazionale inglese).
Avevo trovato l’offerta di lavoro online, utilizzando uno dei tanti motori di ricerca in cui è possibile inserire le parole chiave come “assistantpsychologist”, “supportworker”, “researchassistant” (quest’ultima se puntiamo alle Università).
La mia esperienza lavorativa è quindi cominciata a tre mesi dal mio trasferimento. Sono entrata da subito nel vivo della “formazione pratica” fornita dall’ospedale che mi aveva assunta. Una “introduzione” (induction) di una settimana, retribuita come se avessi già cominciato a lavorare, propedeutica all’inserimento “sul piano” ospedaliero; la formazione, con mia sorpresa, non si è conclusa con l’ingresso in reparto, ma si è periodicamente rinnovata con approfondimenti e laboratori esperienziali (trovandomi in una struttura per pazienti con disturbi comportamentali conseguenti a lesione cerebrale, vi sono stati ad es. workshop pratici su come gestire le eventuali aggressioni fisiche, su come comportarsi con pazienti con disfagia, etc.).
Al mio bagaglio teorico – universitario, dunque, si aggiungeva quello pratico – lavorativo ancora prima di conoscere i pazienti.
Dal punto di vista del contesto lavorativo, mi sono ritrovata all’interno di un affiatato team di professionisti ed ho compreso appieno cosa voglia dire “lavorare in equipe”.
La struttura in cui ho lavorato è una delle poche in cui il “leader” è un neuropsicologo – non medico. C’è una chiara gerarchia di ruoli per la supervisione, rigide regole di comportamento (policies su stile di abbigliamento, rispetto della privacy degli utenti, indicazioni su come riportare eventuali infortuni o problemi, regole che ho dovuto studiare e dimostrare di conoscere) e nonostante tutto l’ambiente è sempre stato piuttosto amichevole e alla pari. É sempre stato incoraggiato lo scambio di opinioni, anche quando queste venivano dagli “ultimi” (sia in termini di tempo trascorso in ospedale, siadi esperienza maturatasul campo, sia di posizione lavorativa ricoperta).
Lavorare in quell’ambiente è stato gratificante e formativo per varie ragioni e mi ha consentito di scrollarmi di dosso quel pessimismo che la situazione del mio Paese di origine mi aveva passato per osmosi ancor prima di poter esercitare la mia professione.
Ai tanti che mi hanno contattato tramite i canali social e la pagina Facebook in cui più volte ho raccontato le avventure e gli aneddoti da “aspirante psicologa in UK”, a quelli che mi hanno chiesto suggerimenti e consigli su come, quando e per dove partire, ho sempre detto che il passo da compiere, per me, è uno –ma non per questo semplice! – :partire. Non completamente sprovvisti (soprattutto dell’atteggiamento mentale di chi sta uscendo dalla propria comfort zone, che vorrà dire adattarsi a situazioni diverse, “strane”) ma di sicuro senza la pretesa di avere “garanzie scritte” che, secondo il mio parere, lasciano il tempo che trovano…
Mi spiego meglio: abituati a dover avere tutte le carte in regola, in Italia non muoviamo un passo se non abbiamo autorizzazioni o certificati ufficiali. Sono tantissimi i colleghi che partono solo dopo avere ottenuto l’OK della BPS che li riconosce come “graduate members” (riconoscimento non solo non necessario, ma ritenuto superfluo perfino da molti psicologi inglesi!) o addirittura (per i colleghi abilitati in Italia) il costosissimo (più di 400£) accreditamento HCPC. La mia personale esperienza mi ha fatto capire che, se sei alla ricerca di una posizione “entry level”, per iniziare, agli inglesi non interessano i titoli o i certificati (nemmeno di lingua: se sai parlare l’inglese, a chi importa il certificato?), quanto le competenze maturate con le esperienze pratiche (anche non retribuite).
Naturalmente, in certi casi – sicuramente non da “appena approdati in UK”! – i riconoscimenti ufficiali sono indispensabili (ad es. se si vuole esercitare come psicologi presso il NHS ci vuole non solo la qualifica HCPC ma anche il certificato di lingua IELTS con un punteggio di 7), ma questi riconoscimenti non servono quanto il biglietto aereo, per partire, se lo scopo è quello di andare fuori per muovere i primi passi (e se non sono i primi passi perché si ha già esperienza in Italia, molto probabilmente, purtroppo, lo saranno in un Paese che non è il proprio…).
Gli unici elementi che reputo fondamentali per fare un’esperienza di crescita come questa sono la voglia di mettersi in gioco, di scoprire nuove realtà, di cambiare – se è il caso – schemi mentali limitanti e, in ultimo ma non per importanza, la pazienza di entrare, poco alla volta, in un sistema sociale completamente diverso dal proprio, che a volte si fatica a comprendere.
Una volta in UK, imparata bene la lingua della gente comune (lingua reale, non quella che insegnano ai corsi di Oxford), fatta un po’ di esperienza nei vari settori, le possibilità di crescere e di fare carriera sono moltissime. Sono tante anche le opportunità che differiscono dal classico impiego di psicologo come lo intendiamo noi, e una laurea in psicologia è spendibile in ambiti che nemmeno conosciamo.
Ma in questa ondata di ottimismo bisogna considerare anche una nota dolente, giusto per non rischiare di scoprirsi ingenui o sprovveduti una volta arrivati lì: la competizione è altissima, gli standard richiesti sono spesso di eccellenza e le selezioni sono severe e rigorose. Il 110 e lode non assicurerà il lavoro, né lo farà una buona parlantina non supportata da una valida esperienza in quello specifico settore.
L’Inghilterra è sì un posto colmo di opportunità, ma per certi versi molto individualista; le persone del luogo passano la vita a investire (anche con notevoli somme di denaro) sulla propria carriera, buttandosi già da piccoli a fare volontariato. Bisogna quindi essere pronti a competere con i nativi inglesi che ci superano per competenza linguistica anche se – come diremmo in Italia – possibilmente “hanno solo la triennale”, ma anche con chi, come noi, viene da fuori, portandosi forse una esperienza più vasta.
Nel mio piccolo, da lavoratrice in terra straniera, posso esser contenta di non aver subito alcun tipo di discriminazione anche quando la mia pronuncia non era perfetta; questo è stato un altro ingrediente (che non va dato per scontato!) che mi ha fatto amare il tempo trascorso lì.
Se dovessi con una parola concludere la descrizione di quel che ho vissuto, inserendo l’anno passato oltremanica come in una parentesi che ha spezzato la monotonia ed il pessimismo tutto italiano, personalmente userei “vitale”.
D’altronde, non è forse conoscere e comprendere l’altro uno degli scopi della nostra professione?
Un grande in bocca al lupo a chi sta pensando di partire, ma anche a chi decide di restare… per intraprendere quell’altra “missione” che si associa alla nostra categoria: cambiare le cose.
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Donatella Ruggeri, dott.ssa in Neuroscienze e riabilitazione neuropsicologica
0 thoughts on “Fare lo Psicologo in UK: vita e lavoro in un ospedale psichiatrico estero”
Ilario says:
Il tuo resoconto è stato veramente illuminante, grazie.
Vorrei chiederti una cosa, però: la cosa che mi ha maggiormente frenato fino ad ora dal tentare una carriera all’estero è la perplessità sulla reale incidenza che la conoscenza della lingua ha nella pratica quotidiana della professione. Nel senso….noi non siamo ingegneri o biologi, per cui esiste una componente “relazionale” della professione, ma che alla fin fine lavorano con grafici, numeri e provette; per noi che con la conversazione e la relazione ci lavoriamo, quanto può essere penalizzante una conoscenza della lingua al 50/60/75%?
claudia says:
Carissimi, dopo una breve esperienza in UK suggerisco a tutti quelli che vogliono andare lì di prendere in considerazione la possibilità di continuare a studiare in Inghilterra, il solo possesso di un bachelor degree non è sufficiente. Inoltre, L’HPCP, che è l’Ente regolatore della professione, fa una istruttoria molto accurata su chi fa domanda è senza tirocinio nè esperienza lavorativa temo proprio che non si abbiano le credenziali per essere considerati in quel paese… ci sono dei corsi part time presso le Università Inglesi e la possibilità di lavorare presso negozi per pagare la retta universitaria è alla portata di tutti. Nei vari stores come mc donald, wasabi, si trova lavoro in poco tempo….molti inglesi lavorano e studiano…
Spero di essere stata un pò di aiuto per qualcuno..
Isabella says:
Ciao Donatella,
Grazie mille del tuo post molto utile!
Anche io ho un Bch in Experimental Psychology e un MSC in Cognitive Neurosciences conseguito all’Università Sapienza di Roma.
Sto pianificando di trasferirmi in UK e sto cercando di capire come fare per avere tutte le carte in regola .
Leggendo il tuo post hai risposto a molte delle mie domande tuttavia ho ancora alcuni interrogativi a cui non riesco a trovare risposte, se puoi aiutarmi! :)
In particolare spulciando tra i vari siti non riesco ancora a capire:
1- Per iscriversi all’HCPC e dunque lavorare per il NHS in UK è necessario aver fatto l’esame di stato in Italia o bastano i titoli di Laurea?
2- Nel modulo per l’application all’ HCPC bisogna selezionare un titolo tra: Practitioner Psychologist, Clinical Psychologist, Counseling Psychologist, Clinical Neuropsychologist, etc..
Noi che abbiamo una specializzazione in Neuroscienze Cognitive e Riabilitazione, come ci possiamo classificare? Clinical Neuropsychologist è corretto?
3- Io ho un Bch degree con una maggioranza di esami che ricadono nell’ambito formativo di Psicologia Generale (di Psicologia Clinica solo un paio di esami..) e so che in UK loro fanno un triennio di Psicologia Clinica uguale per tutti e solo dopo si specializzano in un ambito particolare, perciò sono un pò confusa su come potrebbero inquadrarmi.
Tu pensi che scrivere alla BPS potrebbe aiutarmi prima di mandare la mia application all’ HCPC?
4- Quando ti hanno assunta hai dovuto portargli i documenti di Laurea di entrambe le Lauree o solo quello della magistrale? e ti hanno richiesto specificatamente anche la lista degli esami svolti o no?
5- Riguardo la rilevanza del voto di laurea alla candidatura, cosa s’intende “un voto non al di sotto del First “?
Scusami per il treno di domande ..sono giorni che spulcio di qua e di la con scarsi risultati! :)
Grazie mille ancora se potrai aiutarmi, Isabella
alfredo rete says:
ciao
non ho ben compreso i titoli utili per lavorare in UK
serve una certificazione adatta per il riconoscimento li ?
mi è poco chiaro
grazie mille
in attesa
studente in formazione
Donatella Ruggeri says:
Ciao Alfredo,
ti direi che basterebbe la triennale per accedere a posizioni da “assistant psychologist” (per un’idea di quello che è il ruolo, da’ un’occhiata a questo link: http://www.nhscareers.nhs.uk/explore-by-career/psychological-therapies/careers-in-psychological-therapies/assistant-clinical-psychologist/), ma tutto è veramente relativo e dipendente dall’esperienza pregressa e dalla rilevanza della stessa rispetto al lavoro per il quale ci si candida. Le nostre lauree in psicologia, in linea di massima, dovrebbero renderci “eligible” come “graduate members” della BPS (l’iscrizione non è indispensabile, ma l’Ente fornisce qualche indicazione su come è possibile spendersi, in quali ambiti ecc).
Certamente avere anche la specialistica ti fa partire con una marcia in più rispetto a chi si candida con il solo “bachelor” (i tre anni): il master (la nostra specialistica, appunto) in UK è una cosa che fanno per lo più le persone che vogliono continuare la carriera universitaria e ben pochi di quelli che si candidano per posizioni cliniche lo hanno…
Ma l’esperienza, quella sì, ritengo che sia uno dei “titoli” più importanti; soprattutto perchè chiederanno a tutor o professori le referenze, e questi dovranno confermare che si è fatto altro oltre a studiare. Per questo, secondo me, potrebbe essere un’idea partire dopo il tirocinio professionalizzante (come ho fatto io) oppure, se l’università di provenienza lo prevede, per fare il tirocinio fuori.
PS: anche il voto di laurea è relativamente importante: ho infatti visto che molti inseriscono, come prerequisito alla candidatura un voto non al di sotto del “first”.
Buona continuazione per la tua formazione!
Susanna says:
Ciao,
ti posso chiedere cosa ti ha spinta a tornare? :-)
Donatella Ruggeri says:
Ciao Susanna, a spingermi a tornare è stata la necessità di sostenere l’esame di stato per ottenere la qualifica HCPC ed operare, se mi andasse di ripartire un domani, su un gradino già più alto rispetto a quello che ci si può riservare con la sola laurea (i cosiddetti “entry level”).
In più, la mia voleva essere una esperienza a tempo determinato che aprisse qualche porta ed allargasse gli orizzonti (pensa, ad es., al solo vantaggio che si può ricavare oggi dall’avere fluenza e padronanza di una lingua come l’inglese), ma non ho rinunciato, nel frattempo, a portare avanti dei piccoli progetti che, una volta abilitata, vorrei lanciare “a casa mia”, facendo leva anche sulle risorse che ho acquisito fuori, vivendo – e studiando! – altre realtà.
Nemmeno il mio rientro è, tuttavia, definitivo.
Stiamo a vedere come vanno le cose, nella peggiore (?) delle ipotesi le valigie sono sempre nel ripostiglio, a portata di mano… questa è probabilmente la cosa più bella che mi è rimasta dall’esperienza fuori: la flessibilità, la tendenza ad aggiustare il tiro sulla base dei risultati che si stanno ottenendo. Una cosa che forse diamo per scontato e che studiamo, ma troppo poco spesso consideriamo nel nostro vivere quotidiano.
In bocca al lupo, dunque, che tu decida di partire, restare, o fare un po’ di là e un po’ di qua!