Per terapia di esposizione si intende il ripetuto confronto/incontro con stimoli capaci di provocare ansia e paura. Vedremo la sua applicazione in un caso di basofobia, ovvero paura di cadere.
Eseguita nelle più diverse modalità, non ultima ad esempio mediante l’utilizzo della realtà virtuale o associata a tecniche di neuromodulazione, tale intervento ha dimostrato essere estremamente efficace per la cura dei disturbi d’ansia al punto da essere raccomandata come trattamento di classe A dalle principali linee guida pubblicate dalla American Psychiatric Association e dall’Istituto Nazionale per l’Eccellenza Clinica.
Occorre evidenziare, a tal proposito, che la ricerca, svolta sino ad oggi sull’uomo e sugli animali, è talmente “forte” e “corposa” che probabilmente non ha eguali nel mondo dei trattamenti (psicologici e farmacologici) per i disturbi d’ansia. Considerata come l’equivalente clinico della procedura di estinzione di laboratorio con gli animali, infatti, grazie anche ad una numerosissima indagine su di essi oggi disponiamo di uno smisurato numero di studi e prove della sua efficacia.
Clinicamente parlando la terapia di esposizione risulta essere efficace nel disturbo di panico, nelle fobie, nel disturbo ossessivo e compulsivo, nel disturbo post traumatico, nel disturbo d’ansia generalizzato, del dismorfismo corporeo ed anche in diverse altre patologie non solo psichiatriche (come ad esempio nel disturbo da dolore cronico) nelle quali la “componente evitante” rappresenta un elemento determinante di mantenimento.
La terapia di esposizione nasce con la “terapia del comportamento” anzi, per meglio dire, di tale approccio ne rappresenta la primogenita. La terapia del comportamento non è definita da un corpo canonico di conoscenze teoriche e pratiche, ma da un’opzione metodologica e precisamente da: un costante riferimento al metodo sperimentale e una continua osmosi con le acquisizioni via via rinnovantesi della psicologia di base e delle discipline che vengono a intersecarla (Sanavio, 1998, p. 11).
Fedele a tale approccio, fortemente radicato nella scienza, la terapia di esposizione, nel corso degli anni si è evoluta comportando variazioni più o meno marcate nei modelli teorici di base e negli obiettivi terapeutici.
Tali evoluzioni riflettono i progressi scientifici e tecnologici nelle aree di apprendimento, memoria, cognizione e neurobiologia, che vengono continuamente applicati per migliorare l’efficacia dell’ esposizione stessa.
Oggi, proprio grazie a tali evoluzioni, la concettualizzazione dei meccanismi alla base della terapia sono ulteriormente cambiati e questo ha permesso di fare nuovi passi in avanti nel migliorare la procedura e potenziare ancor più i risultati. Con sempre maggior accordo tra gli esperti, negli ultimi due decenni infatti, l’esposizione non viene più vista come uno strumento che cancella una paura grazie ad un processo di “abituazione” o di modificazione del “set cognitivo” del paziente (pur considerandoli in qualche modo processi protagonisti), ma bensì come un mezzo capace di dar vita a nuove memorie in grado di inibire l’espressione delle memorie di paura (Toso et al. 2016).
A partire da tale presupposto sono state messe a punto delle strategie comportamentali capaci di massimizzare la formazione, il consolidamento ed il recupero delle nuove memorie, come ad esempio:
- etichettatura delle emozioni,
- violazione delle aspettative,
- variazione del contesto
- ecc…
I primi risultati delle indagini di laboratorio e delle applicazioni cliniche basate sul nuovo modello sono a dir poco entusiasmanti.
La Basofobia (paura di cadere) di Vicenzina
Il seguente caso clinico non pretende di essere esaustivo ma esemplificativo di alcune strategie comportamentali, basate sul modello di apprendimento inibitorio, messe a punto per massimizzare l’esposizione. Per un adeguato approfondimento si consiglia la lettura di Craske et al. (2014).
Vicenzina ha 61 anni, sposata e madre di due figlie. Da circa sei mesi presenta un quadro di astasia – abasia (disturbo funzionale dell’andatura con difficoltà nel restare eretti e muoversi) conseguente a due brutte e ravvicinate cadute. Dopo tali esperienze, infatti, temendo di cadere, evita di camminare e di rimanere in piedi senza un saldo punto d’appoggio. In poco tempo si trova immobilizzata dentro casa, spesso seduta, oppure si muove con il girello o appoggiandosi ai muri, alle sedie e ai mobili. In accordo con il marito viene assunta una badante per svolgere le faccende domestiche. Vicenzina ha sviluppato quella che viene definita una basofobia ossia la paura di restare in piedi o di camminare, per timore di cadere. Dopo una approfondita indagine medica viene esclusa una possibile causa organica e le vengono prescritti dei farmaci ansiolitici e un trattamento psicoterapeutico.
Sessione 1
La prima sessione di lavoro è consistita in una discussione dettagliata sulla natura dell’apprendimento associativo e di come l’evitamento ed i comportamenti/stimoli protettivi possano interferire con un nuovo apprendimento (inibitorio) impedendo qualsiasi violazione dell’aspettativa. Le discussioni non hanno sottolineato l’importanza della riduzione immediata della paura di cadere ma si sono focalizzate a descrivere strategie che, mentre nel breve periodo possono suscitare più angoscia, porterebbero alla fine a ridurre la paura. Occorre dunque evidenziare che, a differenza di un tipo di esposizione finalizzato all’abituazione, le esposizioni finalizzate all’apprendimento inibitorio vengono progettate non per rimanere nella situazione temuta fino alla scomparsa della paura ma vengono organizzate per un tempo sufficiente a sfatare le ipotesi formulate dalla paziente (cadrò entro 3 minuti).
Sessioni 2-5
Le sessioni dalla 2 alle 5 sono state focalizzate sull’eliminazione di tutti i comportamenti evitanti e protettivi (es. licenziare la badante ed eliminare più sedie e appoggi possibili in casa) e alla progettazione ed esecuzione di esposizione in vivo finalizzate esclusivamente alla violazione dell’aspettativa. Ad esempio Vicenzina doveva restare in piedi al centro di ogni stanza della casa e assolutamente lontana da qualunque appoggio. Durante ogni esercizio era invitata a muoversi, ad esempio girando su se stessa, alzando una gamba oppure prendendo un oggetto posizionato per terra. Coerentemente con il modello inibitorio, prima di impegnarsi in ogni esercizio alla paziente è stato chiesto di definire il temuto esito negativo invitandola a prestare molta attenzione, al suo mancato verificarsi dopo l’esposizione.
Sessioni 6-12
Le esposizioni dalla 6 alla 12 sono continuate fuori casa variando il più possibile i contesti e i momenti della giornata. Il terapeuta ha assistito la paziente durante esposizioni in diversi centri commerciali, lungo i marciapiedi della città, dentro le chiese e negli uffici postali. Gli esercizi sono stati svolti al mattino, di pomeriggio e anche alla sera. Le esposizioni sono variate anche rispetto ai contesti interni, più in particolare ai livelli di paura della paziente. Gli esercizi sono stati organizzati, infatti, non in maniera crescente di intensità ma in una maniera molto variabile.
Di conseguenza, c’era variabilità sostanziale nella paura in tutte le prove, e alcune sono terminate dopo che l’obiettivo è stato raggiunto e l’aspettativa è stata violata quando la paura era ancora elevata. Durante ogni esposizione Vicenzina è stata invitata ad esprimere verbalmente le emozioni provate (così da favore la regolazione del processo inibitorio), a prestare estrema attenzione allo SC temuto e al non verificarsi dello SI (in modo da favorire la massima violazione delle aspettative) e a portare con se uno spunto di recupero, come ad esempio un braccialetto (così da recuperare facilmente in seguito la memoria appresa). Prima di ogni esposizione, infine, il terapeuta ha cercato di dar vita (per quanto possibile) ad un umore positivo nella paziente in modo da favorire una valenza positiva dello SC.
Considerazioni
La terapia di esposizione, già di per se efficace, di recente è stata sottoposta ad un rinnovo del modello concettuale e delle sue modalità operative e tale aggiornamento sta dando numerosi frutti!
L’obiettivo della terapia non viene più considerato l’ “abituazione alla paura” e neppure la “disconferma delle convinzioni fobiche” ma il suo vero meccanismo d’azione sarebbe la formazione di “nuove memorie antagoniste ed inibitorie”. Questo nuovo modo di intendere l’esposizione sta favorendo lo sviluppo di strategie innovative come quelle comportamentali descritte nel caso Vicenzina (ma anche altre di tipo farmacologiche e di neuromodulazione), che si stanno dimostrando capaci di migliorare ulteriormente gli effetti della terapia.
L’ esposizione sembra vivere dunque una seconda e frizzante giovinezza (Toso 2019 in pubblicazione). La rinnovata tecnica coniuga perfettamente le neuroscienze alla biologia e alla psicologia e offre nuovi spunti di riflessione sui meccanismi di estinzione e sulle modalità per potenziarla. Infine l’esposizione basata sul modello inibitorio si sta dimostrando in grado di integrarsi con adeguata flessibilità ad altri trattamenti psicoterapeutici (es. l’Acceptance and Commitment Therapy) e farmacologici (es. la D-Cicloserina). La terapia di esposizione si sta confermando, dunque, come uno dei grandi successi nella storia del trattamento delle malattie mentali ed il mondo della psicologia clinica dovrebbe andarne fiero. Consiglio ad ogni psicologo, interessato alla clinica, un suo degno approfondimento