Difendere la vita: il paradigma securitario

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Difendere la vita: il paradigma securitario

La teorizzazione di Massimo Recalcati presenta sempre un paradigma clinico e sociale al tempo stesso.

E’ noto che il disagio psichico difatti non nasce mai dal nulla, non si ripropone mai uguale a se stesso, ma è legato al contesto, determinato da basi storico-sociali precise, originato dal mondo in cui il soggetto vive. Così sparisce dai manuali nosografici l’isteria e si presentano prepotentemente, dagli anni ’70, i disturbi alimentari come “disturbo etnico” nella definizione di un bel saggio di Gordon. L’espressione del disagio non è assoluta, tutt’altro: è sempre intimamente connessa al proprio tempo, come le espressioni artistiche e poetiche.

Origine del paradigma securitario

A livello sociale, il paradigma securitario[1], insieme a quella meno recente del paradigma della clinica del vuoto[2], connette la teoria al periodo storico successivo al crollo del muro di Berlino. La globalizzazione, il libero mercato, le democrazie liberali non hanno mantenuto la loro promessa di felicità assoluta, non hanno consegnato il mondo ad un’era felice, né scongiurato il terrorismo, la crisi economica mondiale e le migrazioni clandestine.

Questo clima di incertezza si manifesta attraverso il bisogno dell’individuo di essere e sentirsi al sicuro. La pulsione gregaria, finalizzata alla socializzazione e alla difesa della vita, sfocia così nella pulsione securitaria: il soggetto baratta la propria libertà in cambio della sicurezza.

Il sovranista, il soggetto ideologicamente securitario non è malato, coma alcuni hanno attribuito a Recalcati. Ma la pulsione securitaria diffusa indica ai soggetti strutturalmente fragili una direzione del proprio disagio.

Recalcati – sulla scorta di Reich, Fromm ed Eco – parla di “desiderio di fascismo[3] per indicare proprio la disponibilità e la prontezza con le quali l’uomo si disfa della libertà pur di ottenere riparo dalle crisi economiche e politiche, dalle minacce e dalla contaminazione.

Oggi, la domanda di sicurezza viene rivolta dalle masse alle Destre reazionarie che, in risposta, propongono di erigere muri, isolare i popoli, arrestare i movimenti migratori per proteggere l’identità. Scoraggiare l’estroversione, trasformare lo straniero nel bacillo di peste e il confine da luogo di frontiera in muro invalicabile è funzionale a questa protezione. Chiudere la vita, negarne la trascendenza e la sua forma più umana può presentarsi in alcuni casi come una necessità.

Come nel caso di Fredy Pacini che da anni dormiva nel deposito di gomme che costituiva la propria attività con un fucile a fianco in attesa di un ladro che nel 2018 ha freddato. Quest’uomo è stato acclamato dai suoi compaesani, vero eroe del paradigma securitario.

La pulsione a chiudere è però chiaramente manifestazione della pulsione di morte: il soggetto che predilige il chiuso all’aperto, che sclerotizza la vita, immobilizzandola, che dorme per anni nel proprio deposito di gomme, che trattiene tutto a sé pensando di non perdere nulla, senza avvedersi che sta invece perdendo tutto, è impegnato, da fermo, in una rovinosa e inarrestabile corsa verso la morte.

Paradigma securitario e adolescenza

Al centro del paradigma securitario bisogna collocare le adolescenze che restringono la vita nel microcosmo di una stanza, optando per una quotidianità artificiale, che non ferisce, non coglie impreparati, ma che non può nemmeno sorprendere o stupire.

Gli  Hikikomori, numerosi anche in Italia, non riescono a varcare le soglie della propria abitazione. L’incontro con il mondo è mediato dall’oggetto tecnologico e l’autoreclusione sembra l’unico trattamento all’angoscia, dettata dalla fragilità della condizione umana che ci obbliga  spesso a sentirci come una foglia sul nudo ramo che un prodigio tiene ancora attaccata[4].

Questi giovani si autoescludono dal gioco della vita proprio per scongiurare il pericolo del fallimento, della caduta, della ferita.

La pulsione a chiudere ha così la meglio sul desiderio di libertà, il desiderio della larva[5] sul desiderio di vita, l’isolamento sulla bellezza dell’incontro, l’introversione sulla potenza della libido.

Nuove melanconie

L’appetito di morte[6] delle anoressie restrittive e la caduta nel non senso delle depressioni maggiori possono considerarsi manifestazioni cliniche della pulsione securitaria. Massimo Recalcati  definisce queste forme attuali del disagio contemporaneo “nuove melanconie”.[7]

Se la pulsione di morte nella sua manifestazione libertina, iperattiva e maniacale promette al soggetto un godimento assoluto, nella pulsione a chiudere lo seduce con la possibilità di raggiungere un’omeostasi insovvertibile. Ma si rivela proprio proprio questo vano tentativo di ridurre l’orizzonte delle possibilità, che per Kierkegaard è la categoria fondamentale dell’esistenza, a mortificare la vita.

La società e l’individuo possono  sfuggire alla morsa della pulsione securitaria  accettando la bellezza e la sfida del mare aperto, godendo dell’imprevedibilità dell’incontro e rinunciando alla tentazione paranoica di proiettare sullo straniero ciò che risulta di sé indigesto e inaccettabile.

Articolo a cura di Alessandra Calabrese e Mauro Grimoldi

 

[1] Massimo Recalcati, Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019, pp.43-76.

[2] Massimo Recalcati, Clinica del vuoto: anoressie, dipendenze, psicosi, Franco Angeli, Milano 2002

[3] «Questo desiderio è la chiave per intendere la perversione del desiderio gregario da cui scaturisce la pulsione securitaria. In questi casi l’esigenza della protezione si ipertrofizza e diviene una manifestazione della pulsione di morte» Massimo Recalcati, Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019, p. 62

[4] Umberto Saba, La foglia, Il Canzoniere, Einaudi, Torino 1965

[5] Jacques Lacan I complessi familiari nella formazione dell’individuo, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2005

[6] Ibidem

[7] «Affiorano nuove malattie psichiche, soprattutto tra le nuove generazioni, che condividono la caratteristica del ritiro, della introversione libidica, della sconnessione dai legami, del ripiegamento depressivo, della fobia sociale. Ho definito recentemente queste forme attuali del disagio contemporaneo “nuove melanconie”. Si tratta di una sofferenza che ha come tratto fondamentale il dominio della pulsione securitaria su quella erotica, della chiusura sull’apertura, della difesa sullo scambio. Una melanconia senza senso di colpa, senza delirio morale, senza autoflagellazione del soggetto sotto i colpi di una legge spietata; una nuova melanconia che suffraga la spinta della vita ad uscire dalla vita, a rifiutare la contaminazione inevitabile e necessaria della vita». Massimo Recalcati, La tentazione del muro, La Repubblica, 30 novembre 2019

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