Diventare genitori: un processo di crescita e di nuove consapevolezze

Psicologa clinica e Psicoterapeuta Psicodinamica, Terapeuta EMDR, Perfezionata in Psicologia e Psicopatologia Perinatale, Esperta in Valutazione Psicologia e Psicodiagnosi, Esperta in Psicologia Giuri...
Diventare genitori: un processo di crescita e di nuove consapevolezze

Non c’è un momento specifico e definito per diventare genitori, non è qualcosa che accade all’improvviso.

Divenire genitori è un processo bio-psico-sociale, che si dipana nel tempo, graduale e non lineare, caratterizzato da diverse sfumature emotive e che si costruisce prima e durante la gravidanza, per continuare dopo la nascita del figlio o della figlia.

Decidere di provare a vivere questa avventura è molto coinvolgente per ognuno dei partner e attiva un progressivo e profondo cambiamento di sé e nella coppia. La propria identità di figlia/o andrà sullo sfondo e cederà il passo all’identità di madre/padre, a volte in modo più fluido a volte conflittuale; e toccherà rinegoziare i rapporti interni ed esterni con la famiglia di origine, stabilendo nuovi confini.

La coppia avrà l’esigenza di ripensarsi e di cercare nuovi adattamenti ed equilibri nel passaggio da coppia coniugale a coppia genitoriale, investendo affettività e impegno (perché è un autoinganno pensare che le cose accadano da sé in modo “naturale” e sarà invece necessario aprirsi alla comunicazione di ciò che si prova, chiedere ciò di cui si ha bisogno, rompere vecchi schemi in modo creativo per trovare nuovi accordi rispettosi di tutti, nella nuova e diversa situazione della gravidanza e soprattutto nel post nascita). 

Diventare genitori è un processo evolutivo che interessa la psiche di entrambi i genitori e per le donne anche il corpo; che richiede tempo, attenzioni, energia e del supporto della rete familiare, amicale e sociale.

Nessuno nasce imparato si dice. E questo vale anche per la genitorialità che si “impara” vivendola, ognuna/o a suo modo, in base alla propria storia, alla propria personalità, alle dinamiche di coppia, all’andamento della gravidanza stessa e del parto e al contesto socioculturale in cui si è inseriti. Fin dal periodo gestazionale.

Dal punto di vista intrapsichico nel corso della gravidanza, la mente di entrambi i genitori e in particolare delle madri diventa un laboratorio, un palcoscenico di immagini e fantasticherie funzionali alla gestazione della nuova identità genitoriale e rivelatrici della costruzione in fieri della relazione affettiva tra la coppia in attesa e il proprio piccolo in pancia.

Nel palcoscenico interno della mente si ipotizzano scenari, ci si proietta nel futuro imminente immaginandosi impegnati nel proprio nuovo ruolo, entrando in contatto con desideri e incertezze (sarò capace? E lui/lei che madre/padre sarà?). Si fantastica su come sarà la nuova vita da genitori sulla base della propria esperienza di figlia/o, invertendo ruoli e riscrivendo canovacci più congrui a ciò che si vorrebbe essere come padre e madre e che si avrebbe voluto ricevere come figli.

Attraverso la ricerca delle tracce del proprio essere stata/o figlia/o, i genitori in attesa si preparano a incontrare il proprio figlio immaginario e poi reale e i suoi bisogni. E’ una caduta all’indietro, necessaria da compiere ma non priva di ostacoli e di stanze in cui non si vorrebbe entrare. Perché in questo cammino a ritroso possono esserci solitudini, ferite, trascuratezze, incomprensioni, sofferenze e anche traumi antichi e profondi legati proprio ai bisogni di accudimento e di dipendenza.

Questo volgere lo sguardo all’interno significa anche poter attraversare la fisiologica depressività presente nella gravidanza (a volte più sullo sfondo e a volte in figura), così come in tutte le esperienze di cambiamento/adattamento, compresa quindi anche la transizione alla genitorialità (si conquista qualcosa ma si perde qualcos’altro in contemporanea.).

E’ la capacità evolutiva di dare alla luce e soprattutto di integrare nuove parti di sé e di rielaborare le proprie esperienze passate di attaccamento consentendosi di entrare in contatto autentico con vissuti e fragilità antichi e attuali, senza negarli o scinderli. Al contrario potendoli osservare, comprendere, elaborare e appunto integrare nella narrazione di sé in divenire.

In particolare per le mamme, specie negli ultimi mesi di gestazione e nei mesi successivi alla nascita, lo sguardo rivolto all’interno è anche uno sguardo che si distrae dal rumore del mondo di fuori per concentrarsi sulla gravidanza e su stesse, che consente di rallentare il passo, di vivere il qui ed ora dell’attesa, di fantasticare sul nascituro e di prendersi cura del corpo e delle proprie emozioni profonde (tipiche sono le immagini delle donne incinte con lo sguardo rivolto verso di sé e la pancia).

Desiderare uno stacco, sottrarsi alla corsa e prendersi delle pause consente alla donna in attesa di concentrare l’attenzione sul proprio stato interessante, favorisce la consapevolezza di sé nello spazio vuoto dal fare e la sintonizzazione con se stessa e con il figlio/a nella pancia. E’ anche così che ci si prepara all’accoglienza del/la bambino/a reale e ai cambiamenti in arrivo.

La transizione alla genitorialità significa fare spazio ad un nuovo modo di sentire, pensare e relazionarsi e soprattutto ad un altro da sé, il figlio. E’ vivere un’esperienza totalizzante (almeno per alcuni mesi) che porterà a sperimentare e gestire una nuova idea ed esperienza di tempo, di spazio, di libertà personale, di lavoro e di amore.

Significa entrare in contatto con l’irreversibile e il per sempre di un rapporto unico, quello con un/a figlio/a, che stabilisce un prima e un dopo nel proprio percorso esistenziale.

In questo processo il corpo e le sue modificazioni accompagnano il viaggio interno. La trasformazione del corpo, dietro la spinta ormonale, sostiene la trasformazione nella mente del modo di percepirsi e sentirsi, della rappresentazione del Sé e della propria identità. In modo analogo a quanto accade durante l’adolescenza, i cambiamenti fisici e ormonali, sollecitano la mente a ridisegnare perimetri identitari attivando il processo di adattamento psicofisico.

In questa condizione le sensazioni di vitalità e competenza, gioia e speranza possono essere accompagnate da assenza di pieno controllo sulla situazione, paure di non ritrovarsi e di non piacersi o non piacere al partner, vissuti di perdita. Una sorta di terzo processo di separazione –individuazione coinvolge la donna: i mutamenti del corpo materno non solo rimodellano il precedente senso del Sé in modo che possa prendere piede l’identità materna ma contribuiscono anche a favorire lo sviluppo del bambino immaginario e la costruzione del rapporto con la creatura attesa 2  da parte di entrambi i genitori.

Accade infatti che man mano che passano i mesi, la pancia cresca e aumentino i movimenti fetali, sollecitando nei caregivers il pensiero sempre più frequente del figlio, prima sentito dalla madre come parte di sé e vissuto in modo fusionale e via via sempre più percepito come altro da sé. In questo modo entrambi cominciano a vivere un rapporto con il piccolo presente nel ventre materno, costruendo e relazionandosi con l’immagine del bambino dei desideri e delle speranze, ideale e sano.

In questa fase spesso la coppia cerca nomi possibili, usa nomignoli affettuosi, fantastica sulle somiglianze caratteriali e fisiche, sperimentando il vissuto di genitorialità e rinforzando la relazione di attaccamento in fieri. Verso la fine della gestazione, divengono centrali nella mente e nel dialogo tra i partner i temi del parto, della separazione e dell’incontro con il bambino attraverso la nascita.

E’ abbastanza frequente che oltre al desiderio di conoscere il figlio/a, possano emergere fisiologiche paure per il parto stesso e timori per il bambino, per la sua salute e la sua vita. Nella maggior parte delle madri diminuiscono le rappresentazioni immaginative sul/la figlio/a nel tentativo inconsapevole di proteggere il/la nascituro/a e se stesse da una possibile discordanza tra bambino reale e bambino immaginario (Stern, 1999).

Col parto il neonato entra nella realtà fuori dal corpo materno, inducendo la madre e il padre a dover rimodellare e adattare l’immagine ideale al bambino reale con cui si relazionano e che imparano a conoscere giorno dopo giorno.

Il risultato di questo processo, che inizia dunque nel corso dei 9 mesi di gravidanza e che durerà tutta la vita nella mente della donna e dell’uomo divenuti genitori, è la costruzione e l’integrazione dell’assetto materno/genitoriale (Stern, 1999). Si tratta della nascita di un’organizzazione della vita mentale che coesisterà accanto alla precedente. Un assetto mentale nuovo in cui per un certo periodo di tempo il pensiero del figlio “sarà centrale e determinante, influenzando le emozioni e le azioni, le scelte e le opinioni di se stessi e degli altri”3.

Cardini dell’assetto materno/genitoriale sono il legame di attaccamento, che “ha inizio durante la gravidanza, innescato dai pensieri e dalle fantasie della futura mamma (e del futuro papà ndr) sul bambino che nascerà4”, e le funzioni di protezione, accudimento e cura del/la bambino/a. Il legame di attaccamento genitori-figli è etologicamente atteso, favorito dalle cure prossimali (allattamento, dormire vicini, tenere tra le braccia) e sostenuto dalla produzione di ormoni dell’innamoramento e antistress come l’ossitocina. Il legame di attaccamento è funzionale alla sopravvivenza del/la bambino/a e rappresenta l’ambiente emotivo in cui egli/ella cresce e struttura la sua personalità nei primi 3 – 4 anni di vita, con ricadute sulla sua salute psicologica a breve e a lungo termine.

I genitori, nei mesi dopo la nascita, saranno di fatto impegnati di continuo nell’accudimento del figlio che viene al mondo completamente dipendente dai suoi caregivers (esogestazione) seppure competente nell’ attivare e partecipare alla relazione socioemotiva e corporea con la mamma e il papà. Il post nascita è un periodo intenso e coinvolgente in cui i due genitori saranno indaffarati a imparare giorno dopo giorno come gestire i tanti cambiamenti e le nuove responsabilità: consolare il pianto, comprendere i bisogni, cambiare i pannolini, accompagnare i risvegli notturni e a volte restare notti in bianco, (e per le mamme) allattare e gestire cambiamenti ormonali.

Nell’affrontare tutto questo è importante che le neomamme e i neopapà possano sentire di non essere soli e che possano ricevere e chiedere aiuto e supporto anche pratico per attenuare il carico di fatica e di stress contrastando il senso di isolamento e solitudine che a volte può farsi strada.

Diventare genitori è un’occasione di crescita e arricchimento, di contatto con le proprie capacità e competenze, di messa in gioco e creatività ma, come qualsiasi esperienza umana, non è un processo ideale né idilliaco ma anche faticoso e a volte ambivalente: può accadere di sentirsi tanto entusiaste/i e gioiose/i quanto a volte giù di morale e sconfortate, preoccupate/i o tristi, capaci e competenti o al contrario inadeguate/i, stanche/i e nostalgiche/i del tempo che fu, sole/i e con la sensazione di non farcela.

Proprio per questo è importante sapere senza nessun tabù che sia la dolce attesa che la genitorialità possono avere in sé anche un sapore amarognolo, salato o acidulo per motivi vari e differenti che coinvolgono i protagonisti di questa avventura. Avvertire questi sapori non attesi, pensieri e vissuti non solo piacevoli non significa essere meno mamma o meno papà e non inficia le capacità di essere dei bravi genitori. Significa piuttosto rendere più reale e umana la maternità/genitorialità.

Nonostante la nostra società continui a coltivare l’illusione di una genitorialità e di una maternità idealizzata in cui quando si ha un/a figlio/a si è solo felici, in cui una mamma saprà subito e “naturalmente” cosa e come fare, in cui l’arrivo dei figli unisce la coppia etc.. molti genitori riferiscono che già dall’attesa il percorso della genitorialità può non essere solo rose e fiori.  Sentirsi così non è dunque una rarità o qualcosa di cui vergognarsi o da nascondere.

Eppure troppo spesso in particolare le madri, (su cui maggiormente pesano le immagini ideali e stereotipiche circa l’amore materno), possono interpretare la fatica e lo sconforto provati nell’affrontare i cambiamenti e le difficoltà, come un proprio limite personale, come se ci fosse qualcosa di sbagliato in loro, giudicandosi inadeguate e sentendosi in colpa per ciò che sentono, provando rabbia e tristezza.

I falsi miti alimentano aspettative irrealistiche sulla maternità (una mamma capisce perché il proprio figlio piange e riesce a consolarlo; una mamma non può stare male perché ora deve pensare al bimbo; una mamma è sempre felice di essere mamma) e su questa base le neomamme, quando incontrano emozioni o pensieri che non corrispondono alle credenze stereotipiche collettive, possono più facilmente costruire convinzioni negative su se stesse (non so fare la mamma; non sono capace di accudire mio figlio; non sono in grado di proteggere mio figlio).

Tali convinzioni negative su di sé possono creare un circolo vizioso che aumenta il senso di solitudine e lo sconforto: più ci si sente in colpa e si pensa di non essere in grado di essere e fare la mamma o il papà e più difficilmente ci si concederà di manifestare il proprio malessere e di chiedere aiuto, per la vergogna e per il timore di essere ulteriormente attaccate e giudicate dagli altri come incapaci.

Per promuovere la salute perinatale è importante sapere che genitori “non si è” ma si diventa, che non esiste il genitore perfetto (in base a cosa poi?) ma il genitore sufficentemente buono (Winnicott) e che l’esperienza di diventare genitori non è una performance. Negare che esistano luci e ombre e tante sfaccettature emotive nella gravidanza e nella genitorialità può nutrire fantasie di onnipotenza e al contempo far sentire ancora più strane/i e inadeguate/i le donne e anche gli uomini che le vivono.

Accogliere, accettare, riconoscere ed esprimere questi sentimenti e queste emozioni senza tabù o vergogna promuove la salute psicologica propria e favorisce la relazione di sintonizzazione con il neonato. Solo se accettati e legittimati tali vissuti potranno essere valide bussole interne per orientarci nella nuova esperienza di madre e padre e nella relazione con il bambino/a e con il partner.

Accogliere se stessi nella propria interezza e autenticità psichica ed emotiva fa bene ai genitori e rappresenta una straordinaria opportunità di coltivare e costruire un proprio personale modo di essere genitore che non sia in automatico né la copia né l’opposto del modello vissuto in famiglia.

In una società frenetica e distratta come la nostra, spesso le coppie non hanno molto tempo da dedicare alla condivisione di questa nuova esperienza e manca una comunità che accolga e sostenga. E invece per le famiglie e le coppie sin dal preconcepimento, durante l’attesa o dopo la nascita poter scegliere di prendersi del tempo per sé, per fare spazio al desiderio, alle fantasie, ai pensieri, alle preoccupazioni, alle emozioni presenti significa valorizzare il legame affettivo e la dimensione della cura connaturata all’esperienza di genitorialità; è poter comprendere quello che accade dentro di loro e tra di loro e favorire consapevolezza.

Prendersi un tempo di cura, di accudimento e riflessione per sé e per la coppia durante questa fase della vita significa fermarsi per regalarsi tempo ad esempio frequentando un Corso di Accompagnamento alla Nascita, gruppi di mamme e di genitori in attesa presso i Consultori o nelle tante associazioni presenti sul territorio (per acquisire utili informazioni per gravidanza, parto e puerperio; per costruire una rete sociale di supporto con genitori nella stessa fase della vita); scegliendo di richiedere colloqui con una psicologa perinatale. Comunicare a se stesse/i il proprio sentire e scegliere di condividerlo con altri potrà favorire la comprensione di cosa succede, far sentire capite/i e meno sole/i e può eventualmente facilitare l’espressione di un bisogno e la richiesta di aiuto in caso se ne sentisse l’esigenza.

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