Anche nel nostro paese, da qualche anno, ci troviamo a studiare e a lavorare su un fenomeno sociale
emergente e in forte crescita ossia quello degli Hikikomori. Ma chi sono queste persone? Il termine deriva
dal Giappone e significa letteralmente “stare in disparte”. Viene usato di primi anni 80 per indicare quelle
persone che decidono volontariamente di isolarsi per lunghi periodi dalla vita sociale, ritirandosi nella
propria abitazione e/o nella propria camera.
Nonostante la causa madre sia la pressione di realizzazione sociale propria di paesi economicamente più sviluppati, le cause dell’isolamento sociale volontario sono molteplici (individuali, famigliari, scolastiche, relazionali, sociali), come tante sono le conseguenze che possono arrivare fino a quadri psicopatologici molto complessi. Hikikomori non è una psicopatologia (ansia, depressione, dipendenza da internet…) né un sintomo di un disturbo psichiatrico, però può causare psicopatologie e disturbi psichiatrici.
Per chi non ne ha mai sentito parlare, forse, è il momento giusto per approfondire questo tema: siamo,
infatti, in una situazione sociale e relazionale che ricorda molto da vicino quella dei ritirati sociali.
L’emergenza in cui siamo inseriti, quella del coronavirus, ci costringe a limitare le uscite, ci obbliga a
rimanere chiusi per la maggior parte del tempo nelle mura domestiche, ci mette in contatto con la nostra
solitudine e ci impedisce di relazionarci con l’esterno. Ma è proprio questa la condizione di chi decide di ritirarsi dal mondo? Ni! Ci sono molte differenze sia individuali che relazionali e sociali tra le due condizioni.
In primis il fatto che, nel caso degli Hikikomori, sono loro a “scegliere” di ritirarsi dal mondo, non è qualcosa di imposto. Ma questa scelta è comunque causata da una sofferenza silenziosa che non può essere
tralasciata. Nel nostro quotidiano professionale stiamo notando tendenze opposte rispetto al modo di
vivere la quarantena da parte dei ragazzi in isolamento. Da una parte ci sono quelli che, vivendo
completamente chiusi in casa, si sentono “meglio”, riescono forse per la prima volta a sentirsi “uguali” ai
loro simili; dall’altra quelli che, con tanta fatica e tanti sacrifici, stavano intraprendendo un percorso di
uscita e di risocializzazione ed ora si ritrovano di nuovo al punto di partenza.
Non possiamo, però, non tenere in considerazione che il rischio non è solo per i ragazzi già in ritiro ma
anche per quelli che cercavano in tutti i modi di contrastare questo impulso e che, ora, si sentono vittime degli eventi. Il rischio è reale e concreto ed è indispensabile essere in grado di riconoscere i campanelli di
allarme, le variabili, i fattori di rischio e quelli di protezione e, così, riuscire ad intervenire in modo adeguato
di fronte ad una richiesta di aiuto del singolo e/o della famiglia.
Nella nostra esperienza professionale, abbiamo notato un incremento delle richieste di aiuto proprio in questo periodo di quarantena. Alla nostra casella di posta arrivano spesso lunghe mail di persone o famiglie che ci chiedono aiuto perché non sanno se il loro caso rientra nel fenomeno e hanno paura, molta paura. È nostra responsabilità, come clinici, essere in grado di discriminare le diverse situazioni al fine di progettare e realizzare interventi mirati e funzionali.
In secondo luogo c’è il sistema da considerare, il sistema che è causa e conseguenza dell’isolamento: la
famiglia, i pari, le istituzioni, la società in generale. Un intreccio complesso di dinamiche e variabili che, allo
stato attuale, influiscono notevolmente nell’evoluzione del ritiro. Prendiamo in esame, ad esempio, la
famiglia: nell’ Hikikomori le famiglie sono, principalmente, iperprotettive. I bisogni dei ragazzi vengono
anticipati, le frustrazioni evitate, i tentativi di autonomia boicottati in modo più o meno esplicito: provate ad immaginare ora cosa possa significare il restare 24h su 24 a contatto con la propria famiglia quando, fino
ad ora, si cercava in ogni modo di sfuggirvi…
E poi la scuola, forse il nostro interlocutore privilegiato dopo la famiglia. Come professionisti che si
occupano di isolamento sociale volontario, siamo costantemente in contatto con il dirigente scolastico e
con i professori, ma anche con le istituzioni, per cercare di facilitare un reinserimento ed una diminuzione
degli abbandoni scolastici. Da anni, come Associazione, ci battiamo per attivare percorsi di istruzione a
distanza e/o domiciliare ed allo stato attuale ci ritroviamo inseriti proprio in questa realtà.
Ed ora, forse, visto il periodo in cui ci troviamo, la scuola è pronta per accogliere la nostra richiesta. Per chi lavora, come insegnante o come psicologo, negli istituti – a nostro avviso- una formazione in questo ambito è
imprescindibile: è qui che, per la prima volta, si manifesta il ritiro.
Bullismo, conflitti con compagni o insegnanti, ansia da prestazione (il ragazzo hikikomori è fondamentalmente un perfezionista) sono tutti elementi che scatenano il ritiro sociale che si palesa, inizialmente, con assenze saltuarie da scuola che diventano via via sempre più frequenti. Per tale motivo è indispensabile che lo psicologo impegnato a vario titolo nell’istituzione scolastica sia in grado di riconoscere le discriminanti e possa intervenire tempestivamente per ridurre al minimo la dispersione scolastica.
Non ultimo la società che, come abbiamo visto, è la causa principale dell’isolamento. La richiesta di perfezionismo deriva proprio da essa: realizzarsi professionalmente, essere sempre alla moda, riuscire ad omologarsi al gruppo per farne parte…sono tutto ciò da cui un ragazzo in isolamento cerca di fuggire. Il nostro compito è principalmente quello di sensibilizzare, perché hikikomori deriva dalla società ed è alimentato da essa, quello di far comprendere che non è l’individuo ad avere un problema ma che è l’intero sistema in cui è inserito il responsabile di ciò.
Ovviamente non vogliamo assolutamente svalutare la responsabilità individuale e delegare il tutto all’esterno, nonostante ciò è utopico e impensabile agire sulla persona e non sul sistema. Non ce ne vorranno i colleghi sistemico relazionali se useremo un termine a loro
caro, ossia quello di “paziente designato”: è proprio questo, a nostro avviso, ciò che rappresenta meglio la
persona in isolamento. Dobbiamo agire sul sistema per riuscire a cambiare l’individuo. E, forse, mai come ora – nonostante le differenze – la società può comprendere cosa significa stare chiusi in quattro mura
senza contatti con l’esterno. Gli hikikomori non sono immuni dalle conseguenze dell’isolamento: tristezza,
paura, angoscia, depressione, rabbia…anzi! Sono i primi ad averle sperimentate.
Questo può essere, quindi, il momento di superare i pregiudizi e gli stereotipi, attraverso una identificazione che ci permetta, finalmente, di comprendere in pieno questo fenomeno e trovare insieme strategie di intervento.
Tutti questi argomenti, e molti altri, verranno trattati approfonditamente all’interno del corso in partenza il 30 aprile. Un corso che, proprio per i motivi sopra indicati, risulta essere molto utile per i clinici ma anche per i colleghi che lavorano nelle associazioni, nelle istituzioni e, soprattutto, a scuola. Sarà un corso molto
pratico perché siamo dell’avviso che un vero apprendimento debba necessariamente passare attraverso la
sperimentazione in prima persona. Verranno presentati casi, ci sperimenteremo in simulate e, alla fine,
arriveremo insieme a delineare un progetto di intervento di rete sui singoli casi da voi presentati.
Dott.sse Chiara Illiano e Rosanna D’Onofrio,
psicologhe e psicoterapeute, coordinatrici dell’Area Psicologica dell’Associazione Hikikomori Italia per la Regione Lazio.
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