Hikikomori: riconsiderare il fenomeno in una prospettiva sociale

Dott.ssa Chiara Illiano, psicologa, psicoterapeuta, psicologa giuridica e formatrice. Laureata in Psicologia clinica e di comunità e specializzata in Psicoterapia breve ad approccio strategico, mi...
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“Mi sentivo esclusa, diversa e lontana dagli altri. Nessuno mi ha mai conosciuta veramente, nessuno si è mai veramente interessato a me.” (una ragazza tramite il sito di Hikikomori Italia)

 

Era il 2017 quando una mamma mi contattò privatamente tramite la mia pagina professionale: “Dott.ssa ha mai sentito parlare degli Hikikomori?

Rimasi un po’ sorpresa. No, non avevo mai sentito questa parola né conoscevo quello che a breve sarebbe diventato uno dei miei ambiti di interesse a livello professionale. Lei, di una regione diversa dalla mia e madre di un figlio in ritiro da qualche anno, mi invitò a contattare l’Associazione Hikikomori Italia e ad informarmi su questo fenomeno.

Scoprii un mondo a me sconosciuto, fatto di genitori feriti, doloranti, profondamente affaticati dal peso del mondo che sentivano sulle loro spalle, ma anche immensamente combattivi e propositivi. Persone in grado di mettersi in gioco con il fine ultimo di aiutare i propri figli…croce e delizia di quello che sarebbe stato il loro unico scopo nella vita: “se non posso salvare il mio almeno posso essere utile al figlio di qualcun altro”.

 

Hikikomori e COVID-19

Erano circa 100.000 gli Hikikomori in Italia (contro i 2 milioni del Giappone che fa i conti con questo fenomeno dal 1980) ed il numero in questi anni è decisamente aumentato a causa anche dell’emergenza da COVID-19 (ma su questo torneremo a breve). Non si può far finta di niente, come inizialmente è stato fatto nel paese nipponico: è un “carico” umano ed economico non indifferente per qualsiasi paese economicamente sviluppato.

Quando sono arrivata in Hikikomori Italia erano pochi i colleghi a conoscere il fenomeno, poche le persone a cui chiedere un confronto. Mi misi così a cercare e studiare online pubblicazioni scientifiche, ad ordinare libri in lingua inglese, a farmi un’idea della cultura giapponese (a me fino ad allora sconosciuta), a leggere le storie di genitori e fratelli di persone ritirate e degli stessi ragazzi (ahimè poche) in isolamento sociale.

Iniziai a partecipare ad alcuni seminari informativi per le scuole e le istituzioni, promossi dall’Associazione, e ai gruppi AMA (Auto Mutuo Aiuto) dedicati ai genitori. Più passava il tempo, più ne parlavo e più mi rendevo conto che qualcosa si smuoveva. Ricordo le facce dei professionisti, quando raccontavo la vita di queste persone, i numeri del fenomeno, quando cercavo di spiegare che non è una psicopatologia individuale ma un fenomeno sociale e che, come tale, va trattato.

Non è il “capriccio” di qualcuno troppo “viziato” dai propri genitori, ma un disagio profondo che trae origine dalla cultura e dalla società di appartenenza. Da quelle spinte di realizzazione sociale in cui tutti siamo inseriti e verso cui tutti (chi più chi meno) storciamo il naso.

È un fenomeno che riguarda tutti.

E allora cosa succede in quelle persone che decidono di ritirarsi dalla vita sociale?

Quali sono le cause che conducono a questa “scelta”?

Lavorando quotidianamente ormai da tempo con questi ragazzi e con le loro famiglie ho potuto ascoltare una moltitudine di storie diverse tra loro, con alcuni elementi in comune tra cui episodi di bullismo e conflitti con coetanei ed insegnanti, perché è proprio negli anni scolastici che iniziano a manifestarsi i primi campanelli d’allarme.

E poi è arrivato il COVID che ha portato con sé il lockdown e tutte le conseguenze che i professionisti sanitari conoscono bene. Effetti psicologici a breve e a lungo termine che, nell’adolescenza, si sono manifestati con un’emergenza ricoveri sia per tentativi di suicidio che per autolesionismo.

E gli Hikikomori?

Negli ultimi mesi ci siamo trovati di fronte ad un incremento vertiginoso delle richieste di aiuto sia da parte dei genitori che degli stessi ragazzi. Chi conosce un pochino questo mondo lo sa: le persone in isolamento sono egosintoniche quindi raramente richiedono aiuto. Invece, grazie anche ad un progetto gratuito (per gli utenti non per gli psicologi) che abbiamo attivato e denominato “Hikikomori in lockdown”, molte persone in ritiro si sono affacciate alla nostra porta chiedendo supporto.

 

E allora perché, io psicologo, dovrei voler comprendere di più questo disagio?

Perché dovrei interessarmi degli Hikikomori?

Quando hai il privilegio di parlare con una persona in isolamento (o con la sua famiglia), ti rendi conto che non sei il primo professionista a cui si rivolge. Ci sono ragazzi che in adolescenza hanno già visto più di 4-5 professionisti diversi tra neuropsichiatri, psicologi, educatori etc…ed una frase ricorre: “nessuno è mai riuscito a capire il senso del mio disagio, anzi, le mie motivazioni sono sempre state svalutate”.

E con i genitori la situazione non è molto diversa, fino a qualche anno fa combattevano il nemico senza armi a disposizione. Si sentivano soli, abbandonati dalle istituzioni e da quei professionisti che gli promettevano di aiutarli, ma che in realtà a stento riuscivano a comprendere chi avevano davanti.

“Come possono chiedermi di portare mio figlio da loro se non sono neanche in grado di farlo uscire dalla sua camera?”. Assistenti sociali, psicologi, psichiatri, insegnanti avevano solo una risposta “deve forzarlo!”.

Per non parlare dei fascicoli che portano in consulenza, pieni di diagnosi fatte nel corso degli anni: fobia sociale, disturbo evitante di personalità, distimia etc…

 

Come, da psicologi, aiutare veramente gli Hikikomori

Il percorso di aiuto per le persone in isolamento non può che passare attraverso la costruzione di una rete di cui lo psicologo/psicoterapeuta tesse i fili: lo studio dei modelli familiari, la personalità, la percezione del mondo e del rapporto che ogni singolo individuo istaura con i sistemi di riferimento, le esperienze personali vissute ed il modo in cui si è reagito nelle varie situazioni…

Tutti queste elementi sono in grado di creare una base per comprendere ciò che ha condotto alla scelta del ritiro. Ma per il reinserimento sociale c’è bisogno di altro, indispensabile è costruire un progetto a 360 gradi con il supporto di tutti gli attori del sistema. La conoscenza del fenomeno è urgente e doverosa, è necessaria per riuscire a creare fiducia e alleanza (presupposti senza i quali ogni tentativo è vano) ma poi bisogna essere in grado di attivare le risorse interne alla persona e quelle esterne.

Ed è per questo che il compito dello psicologo che decide di occuparsi di questo ambito non può, e non deve, essere solo clinico. È un fenomeno sociale (non smetterò mai di ripeterlo) in rapida crescita e per questo il cambiamento deve essere sociale mediante campagne di sensibilizzazione nelle scuole, attraverso gli organi istituzionali (è attivo un tavolo con il MIUR), nei quartieri, nei corsi di laurea e di perfezionamento, nei percorsi di formazione per professionisti, insegnanti, assistenti sociali, educatori etc…

 

Veicolare una nuova cultura sul fenomeno Hikikomori

Ed è qui che lo psicologo (sia esso clinico, sociale, scolastico, del lavoro) svolge un ruolo fondamentale, veicola una nuova cultura. Veicola un nuovo modo di pensare le relazioni, la scuola, il mondo del lavoro, le istituzioni. Perché in fin dei conti è ciò che questi ragazzi ci stanno chiedendo: assumerci la responsabilità di dare loro una voce e permettere la creazione di una nuova cultura fondata sull’espressione delle differenze individuali come risorsa e non come un nemico da combattere.

“Sembra avere come principale scopo quello di formare persone col maggior numero di competenze per poter essere pronti alla ‘guerra del lavoro’. Eppure così facendo si perde di vista quella che, secondo me, è la cosa più importante, ovvero formare persone, sì competenti, ma soprattutto felici o quantomeno che stiano bene.” (un ragazzo in risposta ad un sondaggio fatto da Hikikomori Italia)

 

Dott.ssa Chiara Illiano

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One thought on “Hikikomori: riconsiderare il fenomeno in una prospettiva sociale

  • Manuela Schaiter says:

    Grazie Chiara! Ho partecipato l’anno scorso al vostro corso Hikikomori che mi ha aperto gli occhi. Condivido ciò che stai descrivendo ma devo dire che mi sento parecchio sola e vedo un grande bisogno di informare e svegliare colleghi e partner di rete!! Sono in Alto Adige, come si potrebbe fare? Vorrei collegarmi con voi e magari fare tramite, informare e convincere professionisti locali a costruire una rete…
    sarei grata di sentire da voi
    cari saluti
    manuela

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