Recente letteratura, fondata su risultati sia di ricerche empiriche che di progetti di intervento, ha rilevato che la migliore forma di deterrenza dei comportamenti problematici di tipo deviante consiste nella sollecitazione di azioni socialmente positive, attrattive e motivanti per i soggetti coinvolti, e nel miglioramento della continuità fra il sistema delle risposte sociali esterne (istituzioni, famiglia, gruppo di appartenenza) e i meccanismi di risposte cognitive/emotive interne all’individuo.
In questa direzione, dalla seconda metà degli anni ottanta si sviluppano importanti mutamenti nella normativa internazionale che innovano profondamente la concezione del rapporto fra il sistema della giustizia penale e le persone minorenni.
È il 1989 quando nel nostro Paese entrano in vigore le Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni (DPR 22 settembre 1988, n. 448): questa data rappresenta non solo l’esito di raccomandazioni e convenzioni internazionali e del dibattito maturato a livello scientifico, ma anche e soprattutto una rivoluzione nel modo di considerare la devianza giovanile e gli strumenti da mettere in campo per affrontarla.
Fondamentale è l’orientamento espresso dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e dal Consiglio d’Europa. Il 29 novembre 1985 a Pechino, le Nazioni Unite emanano le Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile (c.d. Regole di Pechino) e il 14 dicembre 1990 approvano le Linee guida per la prevenzione della delinquenza minorile (Linee Guida di RiYadh).
Queste norme esprimono con forza le priorità e, soprattutto, le linee di principio che dovrebbero guidare la giustizia minorile: promuovere risorse e azioni mirate a offrire opportunità di cambiamento che non compromettano il sano sviluppo psico-fisico delle persone (aspetti che caratterizzano il nostro processo penale minorile).
Le indicazioni contenute in alcune delle norme indicate (potenziate da successive Convenzioni, in particolare quella di New York sui diritti dell’infanzia del 1989 e quella di Strasburgo sull’esercizio dei diritti delle persone minorenni del 1996, entrambe ratificate dall’Italia) hanno profondamente influenzato l’impegno istituzionale nel campo della devianza giovanile.
Il DPR 448/88 (e le norme attuative, D.Lgs 28 luglio 1989 n. 272) con il modello di intervento che esprime si colloca fra le legislazioni minorili più avanzate e innovative a livello internazionale poiché sostenuto da una finalità promozionale e socializzativa che chiede responsabilità alla persona minorenne, tutelandone il percorso evolutivo.
Primariamente il DPR 448/88 è caratterizzato da una dimensione processuale che si contrappone chiaramente a quella logica deterministica che connetteva, nelle precedenti concezioni e norme, gli esiti del comportamento di una persona con le condizioni di partenza conosciute o conoscibili.
In linea con gli orientamenti espressi da raccomandazioni e convenzioni internazionali e dalla letteratura scientifica, gli interventi si ispirano ai principi di:
- minima offensività (che l’azione penale non rappresenti un’ulteriore condizione di rischio per la persona);
- de-stigmatizzazione (che l’azione penale eviti di lasciare tracce formali nella storia dell’adolescente);
- de-istituzionalizzazione (contenere il ricorso alla pena detentiva per ridurre gli effetti dello stigma e contrastare il radicamento del comportamento delinquenziale);
- attitudine responsabilizzante (un principio che esprime la valenza educativa del processo sul piano della promozione di occasioni di crescita personale e sociale: apprendere responsabilità attraverso processi socializzanti e comportamenti socialmente positivi).
Fra le innovazioni, la sospensione del processo e messa alla prova (artt. 28 e 29 DPR 448/88) costituisce l’istituto di maggiore impatto socializzativo e responsabilizzante, oltre a essere il primo, principale strumento che consente nel nostro Paese di applicare la mediazione penale e altri programmi di giustizia riparativa.
I principi che hanno ispirato l’art. 28 comprendono tutti gli assunti del processo minorile sopra elencati: la misura si configura come percorso dove l’adolescente, attraverso la partecipazione attiva al progetto di messa alla prova, ha l’opportunità di co-costruire, con il supporto e la mediazione della figura adulta, un itinerario di ricomposizione del conflitto attivato dall’azione reato.
Con la messa alla prova, il procedimento formale viene sospeso per un periodo non superiore a tre anni e la persona minorenne affidata ai servizi della giustizia minorile anche in collaborazione con i servizi locali. In relazione agli obiettivi specifici dell’istituto (valutare la personalità all’esito della prova) bisogna considerare la finalità generale di produrre responsabilità come espressione della capacità dell’adolescente di assumere, da protagonista, il significato delle conseguenze sociali e giudiziarie del fatto di imputazione.
La metodologia utilizzata prevede l’articolazione di alcune fondamentali fasi operative: la costruzione di un progetto
- condiviso (fra adolescente, famiglia, servizi, autorità giudiziaria),
- concreto e circostanziato (per poter essere monitorato e verificato),
- flessibile (per poter essere modificato in funzione di eventi critici, problemi emergenti, cambiamenti evolutivi),
- aderente alle possibilità effettive di adolescente e famiglia nonché delle risorse esterne disponibili, innovativo dello stile di vita ma basato sulle competenze attive, supportato e accompagnato in relazione al sistema personale di bisogni/richieste/aspettative, condotto in ottica multidisciplinare e multiagency.
In caso di esito positivo, il reato (quindi la definizione giuridica del comportamento) viene estinto (art. 29).
Ma quali sono gli esiti dei progetti e, soprattutto, l’efficacia di questo istituto processuale?
Numerose ricerche empiriche e statistiche ufficiali hanno mostrato l’efficacia della messa alla prova. Recenti studi hanno anche tentato di esplorare gli esiti a lungo termine evidenziando che, a distanza di sette anni, nella maggior parte dei casi (68,7%), la misura contribuisce a neutralizzare la recidiva.
Per tutte le finalità di cui sopra la messa alla prova può essere considerata un valido strumento per produrre cambiamenti in termini pro-sociali e soprattutto un fattore protettivo nei confronti della recidiva in età adulta.
La prevenzione della devianza è infatti possibile, a condizione che esista un sistema familiare, sociale e giudiziario attento ai segnali del disagio e capace di promuovere risorse, potenzialità, competenze e occasioni di benessere. Tale benessere si costruisce attraverso l’acquisizione di tutte le abilità necessarie ad affrontare la crescita e le difficoltà della vita quotidiana: abilità sociali, di comunicazione e di risoluzione dei problemi, acquisizione di punti di riferimento e valori che consentano di prevedere l’esito delle proprie azioni e quindi di ipotizzare il futuro.
La mancanza di un sistema di significati può portare, infatti, a una perdita della dimensione progettuale e alla costruzione di un senso solo nel contingente del qui ed ora, perdendo di vista la propria storia, oltre che la dimensione futura dell’esistenza.