Possiamo osservare tutti come la violenza sia ovunque.
E’ un dato talmente cogente che sembra banale anche solo ricordarlo. Emerge nella realtà dei nostri giorni e nessun contesto ne è escluso: possiamo aspettarcela nel traffico, quando stiamo in fila alla posta, sui social senza dubbio. La violenza emerge nelle istituzioni ed è presente anche nelle nostre famiglie, in casa, il luogo che si immagina come il più sicuro.
Quello che sembra di riscontrare, oggi, è la caduta di alcuni di quei pilastri – culturalmente e storicamente acquisiti – che ci avevano illuso di aver trovato un equilibrio accettabile, mettendoci al sicuro proprio dal riemergere di quelle emozioni intrattabili che hanno reso evidenti – in altri tempi e ciclicamente – i costi della nostra azione.
Basti pensare – tra gli altri esempi – alla nascita dei populismi, al ritorno dei nazionalismi, al riemergere delle destre estreme contro “nemici” reali e/o immaginari come uniche soluzioni possibili per far fronte alla complessità con la quale ognuno di noi si confronta quotidianamente. Così come possiamo pensare alla violenza di genere, che cresce esponenzialmente anno dopo anno, tema intorno al quale oggi andremo a confrontarci (V. Fini, A. Fedeli, 2017).
La questione della violenza in senso più ampio, è stata così tanto dibattuta oggi raggiungiamo tra le ventimila e le trentamila voci bibliografiche che comprendono ricerche in varie discipline. Filosofi, biologi, etologi, neurologi, la psicologia, la psicoanalisi da molti anni si interrogano sul perché della crudeltà umana.
Se ci pensiamo l’uomo in natura è l’unico essere vivente capace di essere crudele. Quello che ci distingue dagli altri esseri viventi non è tanto, o non solo, la capacità di aggredire, quanto quella di portare, ad esempio, rancore; il pensiero che il nostro dolore sia voluto da qualcun altro, è un vissuto che troviamo nel pensiero dei bambini tanto in quello degli adulti (S. Mitchell, 2003).
Nella nostra cultura ci sono due approcci di base al problema dell’odio, della violenza, dell’aggressività.
- Uno basato sull’idea che le persone siano violente per natura, perchè la predazione è l’obiettivo principale. Ci sono differenti discipline che hanno portato avanti questa posizione, ad esempio Hobbes nella filosofia e Lorenz nell’ambito dei suoi studi di etologia; quest’ultimo sottolinea come l’aggressività sia un bisogno, esattamente come la fame e la sessualità, adattivo e primario.
- La seconda posizione, portata avanti in filosofia ad esempio da Rousseau, è che gli esseri umani siano esseri “sociali” per natura e che, per tale ragione la violenza e l’aggressività siano il frutto del processo di “civilizzazione” che a partire dall’istituzione della “proprietà privata” ha condotto alla sopraffazione e alla violenza dell’uomo sull’uomo.
Freud ad esempio all’inizio delle proprie riflessioni, si posizionò su questa seconda posizione ma successivamente, ad esempio, in Al di là del principio del piacere (1920) si orientò maggiormente sulla prima, ritenendo l’aggressività opera di una pulsione di morte iscritta nel patrimonio “primario” dell’essere umano.
Solo successivamente, alcuni autori appartenenti a scuole nate dopo la morte di Freud, come Sullivan e Kohut, hanno iniziato a riflettere e verificare al contrario che le persone sono orientate a cercare l’intimità personale, l’attaccamento e divengono aggressivi solo se questi bisogni vengono frustrati.
Potrebbe sembrare che solo gli studiosi riflettano sulle posizioni sopra descritte ed invece, seppur il più delle volte implicitamente, tutti si interrogano su queste due ipotesi interpretative.
Precedentemente abbiamo parlato di cosa ci distingue dagli altri esseri viventi, un’altra differenza è che investiamo di significato ogni esperienza che facciamo, e il modo in cui interpretiamo queste esperienze ha un effetto su come reagiamo a ciò che ci accade.
Uno dei problemi più complicati nell’approcciare al tema riguarda la confusione che facciamo quando parliamo di aggressività, termine spesso associato a contenuti ed esperienze negative come l’ingiustizia, la paura, la colpa, la violenza stessa. Sappiano, come dicevamo prima, che l’aggressività si presenta come una funzione importante, se non indispensabile per la sopravvivenza delle specie, regola la relazione tra i suoi membri e favorisce l’adattamento all’ambiente (F. Baldoni 2015).
Il termine aggressività deriva dal latino aggredior (ad-gredior). Il verbo gredior significa sia “attaccare” ma anche “andare”, “avanzare”. La preposizione ad indica “contro” ma anche “verso”, “allo scopo di”. Quindi si tratta di una parola dal significato complesso e molteplice: non vuol dire solamente “aggredire” ma anche “andare verso”, “intraprendere”, “cercare di ottenere”.
Al contrario il termine violenza deriva da “vis”, forza, e richiama all’uso di essa ed è possibile associarla ad una concezione più “negativa” che non quella di semplice aggressività. Ed in effetti l’interpretazione che ne viene data fa sempre riferimento ad una forma di comportamento sociale, a sua volta dipendente dal contesto più ampio in cui si manifesta.
Tornando alle due posizioni descritte Stephen Mitchell riteneva che l’aggressività espressa dalla prima posizione, potesse essere l’espressione inevitabile di un desiderio di potere e di dominio che su un piano personale si traduce con la diffidenza e la paura dell’intimità. Il fallimento di una relazione potrebbe essere il motivo per mostrare la propria vera natura. Vista dalla seconda posizione l’aggressività invece è una risposta ad esperienze di frustrazione e deprivazione e su un piano personale le relazioni potrebbero rompersi quando non abbiamo amato o non siamo stati amati abbastanza (S. Mitchell, 2003).
Come vedete ci potrebbe capitare di oscillare tra le due posizioni, spostandoci dall’una all’altra a seconda delle esperienze che stiamo vivendo perché di fatto nessuna delle due è soddisfacente appieno. Probabilmente questo accade perché sempre di più facciamo esperienza della complessità in cui siamo immersi. Sempre più stiamo sperimentando il passaggio dalla cultura dell’aut-aut a quella dell’et-et.
Allora oggi essere una persona appare un’impresa molto più complicata e anche coinvolgente di qualche tempo fa e su più piani. È esperienza comune, quotidiana, quella che ci fa sembrare di negoziare costantemente i significati di quello che ci succede con gli altri: dal lavoro alla famiglia, dalla scuola ai contesti di libera aggregazione. Dal pubblico al privato.
Nonostante questo siamo convinti, a livello sicuramente implicito ma a volte anche esplicito, che possiamo e in fondo anche dobbiamo esercitare il controllo su noi e sugli altri per ciò che riguarda le emozioni, i sentimenti e le azioni che compiamo.
Essere allora convinti che si possa avere questo tipo di controllo rappresenta uno dei prodromi dell’azione violenta che di fatto è un’operazione di riduzione della complessità, il tentativo reazionario di un ritorno al o-o, o questo, o quello.
Questo tipo di esperienza soggettiva si esprime dentro le relazioni e le degrada, perché deve poterle piegare, e qui faccio riferimento anche al titolo scelto per il seminario, al servizio di questo illusorio senso di sicurezza e controllo.
Nell’affrontare la violenza e nello specifico la violenza di genere emergono una serie di questioni che si sovrappongono e si intersecano e che danno la dimensione di quanto sia complesso approcciarsi al tema.
La violenza di genere è una forma specifica di violenza che ha delle caratteristiche specifiche che affondano nella cultura, e ha delle conseguenze sia su un piano sociale e giuridico, nonché anche su un piano specificamente clinico.
La violenza contro le donne è un fenomeno da sempre presente nella nostra cultura come in tantissime realtà in tutto il mondo. È presente anche nella mitologia di ogni paese e cultura e molte pratiche, anche di popoli antichi, raccontano di violenze perpetrate dall’uomo sulla donna.
Uno che mi viene in mente mentre rifletto su questi argomenti è il “ratto delle Sabine” o altre vicende drammatiche ed orribili come le pratiche di stupro sistematico delle donne in occasione di conquiste militari e razzie. Non possiamo negare storicamente la millenaria condizione di sottomissione e subalternità della donna nei confronti dell’uomo emergente anche nei codici di legge di tutto il mondo fino ai giorni nostri.
Il fenomeno della violenza sulle donne è espressione di una specifica cultura, originaria, trasversale e multiforme: la cultura patriarcale, una cultura ancora da comprendere appieno e che solo un’analisi superficiale potrebbe farci pensare come parte di un passato oramai alle spalle.
La violenza che questa cultura esprime è quella del potere che vorrei definire senza competenza, cioè il potere basato sul genere o sul ruolo; il potere dell’uno sull’altro, un potere non-pensato, e non costruito e non negoziato dentro le relazioni e per la collettività.
La violenza sulle donne è quindi un caso particolare e specifico di una forma più articolata di violenza, quella del potere distruttivo, o meglio del potere che non avendo la competenza di costruire diviene possesso dell’altro. Possiamo considerare il razzismo, lo schiavismo, lo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente, come forme diverse della stessa matrice culturale (A. Bernetti, comunicazione personale).
Questo tipo di cultura ci sembra ponga grandi problemi e conseguenze che non sono infatti solo valoriali o astratte ma sono capaci di irrompere nella vita di ogni persona, in ogni relazione, permeando le esperienze concrete.
É innegabile ormai che il rapporto tra individuo e cultura sia da considerarsi inestricabile, non esiste infatti un individuo fuori da un contesto culturale e non esiste una cultura senza individui, per cui quello che ne deriva su un piano clinico è la necessita di lavorare sempre con delle relazioni, costituite da soggetti immersi nelle proprie culture di appartenenza.
La lettura psicologica del problema della violenza non può più basarsi quindi su modelli individualistici, ma su approcci che vedono in primo luogo come oggetto del proprio intervento le relazioni.
Così mentre siamo entità psicobiologiche, con tutto quello che questo comporta sia su un piano di bisogni fisici, pattern di comportamento, genetica, biochimica e di funzionamento psicologico, cosa facciamo o non facciamo è anche intrinsecamente collegato a come percepiamo noi stessi e il mondo intorno a noi (F.D. Zulueta, 1999).
Non sarà sufficiente allora una lettura del fenomeno in termini di comportamenti e di caratteristiche psicopatologiche individuali da correggere; sarà necessario piuttosto lasciare spazio a una lettura che vede persone che vivono ed esprimono nelle loro relazioni la cultura in cui sono inseriti, che sperimentano, talvolta in maniera drammatica, dei problemi e in qualche modo sentono una domanda di cambiamento che può e deve essere colta.
Lindemann (1944) diede una interessante definizione di trauma come “un’improvvisa interruzione della relazione umana” e di fatto la distruttività umana non è possibile comprenderla se non attraverso il riconoscimento dell’importanza che essa ha nei nostri contesti di vita e nei rapporti con gli altri.
Occuparsi della violenza in questi tempi, significa provare allora a fornire opportunità alle nuove generazioni, non solo limitare i danni. Questa domanda di cambiamento è un’occasione che la società deve sostenere, diffondere e poi accogliere con competenza. Trattare queste domande significa offrire una possibilità di sviluppo per le persone e per le relazioni che vivono, e significa incidere profondamente nella società e nella cultura.
Nel definire un comportamento violento diamo significato ad una forma di comportamento interpersonale.
Una persona che ha subito violenza o l’ha agita è cresciuta e vive dentro una cultura specifica, è dentro un contesto relazionale specifico, ha un proprio e soggettivo modo di significarsi dentro le relazioni, crea e gestisce le conseguenze di quanto vive su un piano sociale, concreto, reale.
Per concludere, vorrei citare di nuovo Mitchell per dire che chi lavora con la violenza di genere sarà necessariamente portato a mettere in gioco la “selva delle problematiche e delle dialettiche relative allea fantasie e alla realtà, all’essere sé stessi e all’essere diversi, ai corpi e alle emozioni, all’amore e all’odio, a ciò che è sotto il nostro controllo e a ciò che non può esserlo, alla sofferenza e al senso di colpa, alla sicurezza e al rischio”
Autrice: Dottoressa Alessia Fedeli, Psicologa, Psicoterapeuta Centro Prima
Contributo portato come introduzione ai lavori del seminario organizzato dalla SIPRe – Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione – 8 Ottobre 2022