L’abbiamo detto e l’abbiamo ripetuto. Una cosa è un discorso pubblico, un’altra è un dialogo tra amici, un’altra ancora una lezione a scuola, un’omelia durante una messa, una dichiarazione d’amore, un discorso politico. Sono tutti strumenti culturalmente definiti in cui la parola umana prende forma attraverso una comunicazione che ha delle sue regole precise, diverse per ciascuna delle sue manifestazioni.
Quando la parola viene utilizzata per conoscere la realtà psichica di un individuo, magari perché questo stesso individuo desidera modificarla perché gli causa sofferenza, ci troviamo in un altro contesto, del tutto diverso. È un territorio, quello della clinica del colloquio assolutamente rigoroso, che richiede di fare cose per nulla intuitive e di astenersi dal fare ciò che in altri contesti risulterebbe spontaneo. L’empatia non conta, in questo contesto, anzi, porta a commettere errori.
Alcuni psicologi, in particolare di orientamento psicanalitico, hanno segnato la storia di questa disciplina, in cui la competenza teorica si trasforma, riprende la forma di una praxis, di un atto, costituito dalla parola dello stesso psicologo.
Fra gli autori che si sono occupati di colloquio mi piace iniziare da un collega ingiustamente meno conosciuto di altri giganti, Sergio Erba. In “domanda e risposta”, un testo ormai divenuto quasi introvabile Erba parla di un elemento importante, di una vera e propria invariante del setting psicologico costituito dal ruolo dello psicologo che si pone davanti al suo paziente o cliente. Il ruolo è la somma di tutti i confini all’interno dei quali ci si deve muovere. E’ in fondo lo stesso scenario che si pone per tutti i ruoli che si assumono nella vita: figlio, genitore, amico, partner. Ma per lo psicologo è diverso.
Il ruolo che Erba chiama Ruolo Terapeutico (esiste un associazione e una scuola di psicoterapia che si chiamano così, ispirate al suo pensiero) possiede una serie di attributi obbligatori, ovvero delle caratteristiche che lo psicologo deve obbligatoriamente incarnare – o perlomeno non smentire! – nel momento in cui “veste” il ruolo; queste caratteristiche incidono sul livello funzionale, ovvero sul livello in cui risiede la tensione al raggiungimento del risultato. Anche Erba, come poi farà anche Semi, ci dà le sue regole del gioco: la domanda viene prima della risposta; la regola del 50/50; la regola che vuole che la risposta sia sempre sulla domanda e non alla domanda.
Il colloquio clinico secondo Antonio Alberto Semi
Ma c’è un autore di cui non si può non parlare quando si ragiona di colloquio psicologico. E’, se vogliamo, l’Autore, il riferimento. Il testo “Tecnica del Colloquio” di Antonio Alberto Semi, nonostante sia datato 1985 tuttora rappresenta il riferimento su tutti quelli che sono i prerequisiti, gli aspetti materiali, le regole e l’anatomia di un colloquio clinico. Anche solo rispetto alle regole del linguaggio, della frustrazione, della reciprocità, nessuno può occuparsi di colloquio clinico senza conoscerle, non si possono ignorare, magari anche solo per dichiarare il proprio disaccordo. Di fatto quello di Semi è stato un lavoro pionieristico, che ha consentito per la prima volta di applicare le regole della psicanalisi, la regola fondamentale di Freud, neutralità, l’invenzione del setting… fino al più ampio contesto del colloquio psicologico.
Il colloquio clinico nelle teorizzazioni di Massimo Recalcati
Ma se non è detto che la modernità porti necessariamente sempre comunque dei miglioramenti nel campo delle scienze umane, tuttavia di recente le tecniche del colloquio proposte da Massimo Recalcati, che riprende nel suo lavoro sul colloquio la metafora delle due porte di ingresso nella terapia proposta da Colette Soler e porta così un’innovazione importante, poiché conduce il clinico a interrogarsi profondamente sul desiderio del paziente-cliente, sulla sua posizione etica ed euristica.
Questa prima triade gli autori fornisce in effetti gli elementi che potremmo considerare fondamentali in un colloquio che attinga profondamente e in modo non troppo “selvaggio” dal serbatoio epistemologico della psicanalisi per fornire uno strumentario psicanalitico utile a tutti gli psicologi.
Altri autori importanti
Tuttavia non è finita qui: se compulsando i testi e gli autori citati abbiamo concluso la parte generale di un discorso sul colloquio, altri autori risultano interessanti per la loro capacità di sottolineare alcuni aspetti particolari.
Glenn Gabbard è uno di questi. Ha proposto un’interessante distinzione tra colloqui di tipo espressivo e supportivo, che costituiscono un continuum che diventa la via d’ingresso maestra alla particolarizzazione dei colloqui sulla base della diagnosi differenziale dei pazienti. Oppure Maria Clotilde Gislon, storica collaboratrice del compianto Zappatori svolge invece un’analisi concreta difficilmente eguagliabile di tutti gli elementi di contenuto che nel loro insieme costituiscono un accettabile ma completo quadro diagnostico.
Il colloquio clinico oltre la psicologia
Infine, mi piace proporre di guardare da una finestra culturale raffinata e decisamente eccentrica. Un qualcosa di più. Che forse va oltre, prescinde l’ambito strettamente psicologico e psicanalitico. Vorrei proporvi di leggere qualcosa di semiotica, ad esempio di Greimas o Propp, ad esempio l’analisi delle fiabe. Utilizzata più in ambito di marketing pubblicitario che nel colloquio psicologico l’analisi semiotica si dimostra molto utile per analizzare elementi di colloquio puntuali e particolarmente complessi.
Per lo psicologo esperto è fondamentale imparare a conoscere e prevedere il significato dell’azione discorsiva, che prelude, prepara una semiotica diversa del discorso clinico, che non si chiude su se stesso ma apre al discorso dell’altro; gli spazi di miglioramento in questa pratica che si avvicina all’arte sono sempre enormi, le potenzialità infinite.
Per chi è invece agli esordi è fondamentale saper usare con sicurezza e chiarezza la tecnica principale dello psicologo e poter avere il vantaggio di una straordinaria chiarezza sulle regole da adottare e gli errori da evitare. In tutto questo la diagnosi di struttura, eseguita con sicurezza attraverso il solo colloquio è la bussola in grado di fornire coordinate certe per la direzione della cura.
Un esempio.
Al termine di un colloquio clinico, una paziente preadolescente esce dallo studio dello psicologo e scopre, appostata dietro la porta, la madre che origliava. Quest’ultima punta il dito e le grida: “Giuda Iscariota!” La figlia, per nulla sorpresa o spaventata le risponde: “la prossima volta pagami, e dirò quello che vuoi tu”.
Un simile passaggio, decisamente fuori dall’ordinario, rappresenta qualcosa di prezioso. L’uso delle linee narrative, del modello attanziale e del quadrato semiotico ci consente di penetrare a fondo il significato sotteso a brani di colloquio puntuali che richiedono un’esplorazione profonda, che aprono al clinico mondi inaspettati, prospettive mai considerate prima.