La ritraumatizzazione: il rischio di “riaccendere” un trauma irrisolto. Una situazione emergenziale come quella causata dall’epidemia da COVID-19 e in particolar modo il conseugente l’isolamento, hanno aumentato in modo esponenziale il rischio di ritraumatizzazione. Ma come è stato ed è trattato questo fenomeno in terapia?
Viviamo in tempi difficili e strani. La pandemia di COVID-19 e le restrizioni imposte per contenerla hanno influenzato in molti modi negativi le nostre funzioni quotidiane, con l’autoisolamento e i lockdown che hanno avuto effetti devastanti sulla salute mentale. Le persone hanno cominciato a sentirsi in crisi, con panico o paranoia, mentre le comunità e le società stanno vivendo una crisi di cui le autorità cercano disperatamente delle risposte. Sia le persone che la società stanno vivendo un trauma.
Questa pandemia viene spessa narrata come una situazione di simil guerra. Il termine “guerra” e “pandemia” sono usati quasi in modo intercambiabile per descrivere la situazione attuale, ma sono equivalenti? Si potrebbe dire che sia la guerra che la pandemia portano a un collasso della sicurezza dell’ambiente esterno e quindi al fenomeno della “patologia di confine”.
La prospettiva storica della guerra nel mondo, includendo anche quelle nella ex-Jugoslavia, ci fa confrontare con l’esperienza dei confini violati, delle crisi, della distruzione, della perdita di autorità, della disintegrazione, della devastazione e della mancanza di empatia ed umanità. In un ambiente di guerra, sia l’individuo che la società devono affrontare un diverso modo di funzionare, il bisogno di adattarsi che senza dubbio genera esperienze dolorose e traumatiche.
Lo studio
In questo articolo presentiamo il nostro lavoro clinico con diversi pazienti della ex-Jugoslavia su cui la pandemia ha causato una ritraumatizzazione dell’esperienza di guerra.
1)Il primo scopo è mostrare le similitudini e le differenze tra la guerra e la pandemia in termini di gestione della situazione. L’esperienza traumatica della pandemia e quella della guerra sono diverse per la loro natura, simili e diverse nei loro “effetti e conseguenze patologiche”.
2)Il secondo obiettivo è mostrare che gli psicoanalisti possono offrire uno spazio e un momento abbastanza sicuro, e un’altra persona, per i pazienti ritraumatizzati può riparare il trauma collettivo e individuale.
3)Il terzo obiettivo è mostrare che il trauma individuale può solamente essere risanato attraverso il processo psicoterapeutico individuale e i processi di pensiero e sogno di gruppo. Il trauma individuale può solo essere elaborato, processato e risanato a livello collettivo.
Lo scopo di questo articolo non è una considerazione sociologica o un’analisi politica. Come psicoanalisti, vorremmo offrire un’interpretazione di connessione tra la pandemia e l’esperienza di guerra attraverso un’analisi del materiale clinico preso dalla pratica individuale che è stata anche discussa dai processi del gruppo dei pari. In questo modo, proveremo a presentare come possiamo iniziare a trasformare il trauma e la ritraumatizzazione in un processo di risanamento.
Il gruppo dei “pari” psicanalisti e la sua funzione nella ritraumatizzazione
Il gruppo dei pari psicoanalitico “Sophia” è un gruppo di cinque psicoanalisti da quattro paesi della ex-Jugoslavia. Il materiale clinico presentato qui è quello derivato dalla nostra pratica clinica. Il materiale e i processi dal lavoro psicoanalitico individuale dei nostri membri è stato portato al gruppo e ripensato per i processi di gruppo. Il lavoro clinico individuale dei pazienti ritraumatizzati è stato rielaborato nuovamente a livello collettivo.
I nostri membri da Sarajevo e Belgrado hanno usato il processo di gruppo e la “mentalità di gruppo” come ambiente sufficientemente sicuro con delle barriere funzionali. In questo modo, l’analista ha potuto ampiamente e con sicurezza processare il proprio materiale clinico e portare successivamente “il materiale di gruppo e collettivo” in uno scenario analitico. I pazienti dei nostri due membri del gruppo “sono diventati” pazienti a livello collettivo (del nostro gruppo) e sono stati coinvolti in un processo di pensiero parallelo e di sogno (nello scenario individuale a livello di gruppo).
Wilfred Bion dice che quando si incontra un’altra persona, un individuo “perde la propria mente e identità”. Due persone sono già un gruppo. Aggiungiamo pure che oltre a perdere la propria mente, si acquisisce “una nuova mente e identità di gruppo individuale e collettiva”: la mentalità di gruppo che è un processo costante di cambiamento. Viene chiamata “sistema protomentale” del gruppo. Il processo nella funzione di gruppo è a- livello di “supposizioni di base” quando affronta modi primitivi di connessione e disconnessione.
In una situazione di crisi, come una guerra o una pandemia, i processi estremi e patologici prevalgono sul gruppo. Questi stati paranoidi e schizoidi della mente (della mentalità collettiva/di gruppo), quando si distrugge, odia, uccide, colonizza o tortura un altro gruppo, sono visti come “normali”. Abbiamo a che fare con un gruppo che perde la testa: un gruppo o una società che impazzisce.
Il caos regna e il gruppo disperato prova a trovare un leader narcisistico – il dittatore – salvatore magico con l’ideologia che salverà tutti per sempre. Questa soluzione è solo temporanea e diminuisce l’ansia opprimente, la paura e la paranoia, sfociando però presto in un nuovo collasso del sistema, in un’altra barriera disfunzionale e danneggiata, un’altra guerra e un altro trauma collettivo.
Come possiamo evitare che ciò accada durante la pandemia e in futuro? La riparazione invece della ripetizione è possibile? Se sì, come?
L’analista che lavora con il paziente che ha vissuto un trauma collettivo e con il paziente che lo ha assimilato a livello transgenerazionale ha bisogno di espandere i propri contenitori mentali (la capacità di pensare il trauma). L’analista affronta dei compiti difficili che minacciano i propri contenitori e funzioni simboliche, che possono trasformare il testimone “incosciente” in un testimone “partecipante”, un’esperienza dopo la quale nessuno dei due può essere lo stesso.
Questo è il momento in cui entra in gioco il gruppo dei pari come un “contenitore esteso” per l’analista, capace di metabolizzare i contenuti non metabolizzati, preservando perciò la funzione simbolica dell’analista. Questa esperienza risulta in una realtà psichica comune, e un terzo analitico intersoggettivo, che appartiene sia all’analista che al paziente, rendendo entrambi i contenitori mentali “più grandi”.
In questo spazio, il paziente non è subordinato passivamente all’analista, e c’è lo spazio non solo per le dinamiche di sviluppo personale connesse alla cura o all’abbandono genitoriale, ma per un’altra dimensione di relazioni umane. Ci permettiamo di essere toccati dal dolore di qualcuno nel tempo e nello spazio in cui condividiamo informazioni, energie, speranze e conoscenze comuni.
Le teorie su trauma e ritraumatizzazione
Quando affrontano un pericolo, le persone che non hanno il privilegio di vivere in una zona non di guerra da molte generazioni cominciano immediatamente a connettere quel particolare pericolo alla guerra. Questo si può attribuire a una traumatizzazione o una ritraumatizzazione collettiva, individuale e transgenerazionale. In questo, la psicoanalisi ha molto da offrire e affronta diversi tipi di trauma e connessioni inconsce per un’ampia varietà di sintomi.
La prospettiva di Freud sul trauma e sulla ritraumatizzazione
Questi argomenti sono stati prima analizzati da Sigmund Freud che ha trattato il concetto di trauma per tutta la vita. All’inizio, ha messo sullo stesso piano la nozione di trauma con il trauma sessuale infantile, che ha in qualche modo modificato più tardi riconoscendo la realtà interiore la vita fantasmatica. Freud ha connesso le nevrosi di guerra che sono emerse durante e dopo la Prima Guerra Mondiale con l’ansia e ha rimpiazzato il termine nevrosi di guerra con il termine situazione traumatica. Una situazione traumatica è il risultato dell’interconnessione tra realtà interna e realtà esterna che attiva un intero arsenale universale e individuale fantasmatico.
In una situazione traumatica, l’enfasi è sull’esperienza di perdita, che pone il soggetto in uno stato di totale impotenza motrice e mentale tra una ripetuta eruzione di stimoli interni ed esterni. Indirettamente il soggetto, nel tentativo fallimentare di gestire il trauma, connette l’istinto di morte, la situazione traumatica e la ripetizione compulsiva. Nella moderna psicoanalisi, il trauma si riferisce a una situazione che coinvolge non solo il soggetto e la rottura della barriera degli stimoli, ma anche il senso di impotenza e il mondo delle relazioni interpersonali e delle connessioni obiettive, due termini che non sono equivalenti.
Ulteriori prospettive su trauma e ritraumatizzazione
Successivamente, Michael Balint è stato il primo a sviluppare il concetto di trauma situazionale, ponendo l’oggetto nella realtà esterna e perciò mettendo la relazione madre-figlio e la loro armonia sullo sfondo. Al contrario, Melanie Klein ha comparato il trauma all’ansia e all’abilità del soggetto di gestirla nella vita. Masud Khan ha ulteriormente definito il termine “trauma cumulativo” e ha identificato la madre come lo scudo e l’ego ausiliare. Il ruolo del trauma è quello della rottura dello scudo, che avviene silenziosamente e invisibilmente durante il processo di sviluppo e può solo essere compreso in maniera retrospettiva.
I concetti teorici sono stati ampliati da Leo Rangel (1967) che ha introdotto la “vulnerabilità al trauma”, un fattore clinico molto importante che distingue il traumatico dal patogeno. Stando a questa nozione, non c’è un trauma senza un oggetto, senza tener conto se sia l’oggetto che rende il ruolo patogeno del trauma più chiaro o se lo offusca. Rangel dice che stando alla natura e al destino delle relazioni oggettive (relazioni tra soggetto e oggetto) dovremmo mantenere una comprensione di base della teoria economica del trauma nella sua forma pura.
Il trauma collettivo e la ritraumatizzazione
Nel tentativo di definire il trauma collettivo, Dori Laub enfatizza la demolizione dello scudo empatico protettivo, fatto di oggetti primari interiorizzati che fanno perdere alla persona la confidenza negli oggetti buoni che hanno la capacità di dare un senso alle esperienze. Ciò che rimane è “un buco vuoto” al posto in cui prima esisteva qualcosa. Sulla stessa linea, Marianne Leuzinger Bohleber (2010) enfatizza il danno fatto dalle rappresentazioni interiori e dell’auto-oggetto nel trauma collettivo. La fiducia di base nel mondo collassa, una fiducia che Jose Bleger descrive come un nucleo agglutinante che giace ai piedi della psiche, che ha bisogno di un ambiente per garantire la de-simbiosi e l’individuazione.
In linea con le teorie moderne già presentate, Rene Kaes e altri hanno sottolineato che il trauma collettivo danneggia la membrana semipermeabile tra la realtà e la fantasia, e il soggetto è ridotto ad individuo anonimo. Il trauma sociale è transindividuale perché, oltre alla violenza intrusiva, c’è anche un’invasione dello spazio comune. Stando a Kaes, oltre a queste fondamenta inconsce, il ruolo della psiche è processare le differenze che possono sempre scatenare violenza.
Il compito degli analisti nella ritraumatizzazione
Uno dei compiti più importanti degli analisti è domare il trauma (molto spesso questa metafora viene usata per la curva epidemica). Il trauma può essere domato con l’aiuto di metafore che trovano un nome per le esperienze traumatiche, in modo da posizionarlo in un certo quadro concettuale e perciò limitare il suo potere distruttivo. Oltre al nominare, abbiamo bisogno di creare dei significati e spiegare le esperienze, che, stando a Willie e Madeleine Baranger sono il punto in cui la psicoanalisi comincia e dove la coppia analitica nasce.
Ciò che chiamiamo un essere umano, una psiche, un contenitore, uno scenario analitico, un gruppo, un gruppo sociale, un’istituzione, una nazione non sono un sistema chiuso. Sono sistemi in costante relazione dialettica tra l’esterno e l’interno. Inoltre, la relazione tra l’interno e l’esterno è caratterizzata da un dinamismo complesso e da manifestazioni di diversi materiali psicologici come emozioni, sogni, eventi, ricordi, sensazioni e associazioni che danno origine a questo cambiamento costante e turbolento degli stati, dei punti catastrofici.
Il confine o la barriera tra l’interno e l’esterno è qualcosa che potremmo usare per descrivere una linea precisa di separazione o una zona cuscinetto. Quando trattiamo i confini nelle relazioni umane (quando due persone, due gruppi o due nazioni si incontrano/scontrano), in senso psicanalitico, parliamo della loro forza, elasticità, rigidità, permeabilità e capacità di trattenere e contenere una situazione di o all’interno di uno scontro/incontro. Quando parliamo di barriere rotte, danneggiate e del loro funzionamento, parliamo della “patologia dei confini”.
I danni di diversa qualità e quantità possono avere cause diverse e diverse conseguenze. La paranoia è una di queste. Uno degli estremi è una totale distruzione delle barriere che devasta il sistema e l’individuo, causando propriamente il caos in un gruppo e la psicosi nell’individuo. L’altro estremo è quando la barriera diventa sigillata ermeticamente, non permeabile, senza elasticità. Questo può causare uno stato catatonico e autistico di funzionamento, l’isolamento totale dell’individuo dal mondo esterno.
Estratti dai materiali clinici
Durante la pandemia, tutti i nostri pazienti hanno percepito che qualcosa era cambiato. Inoltre, tutti hanno cominciato a vedere delle similitudini tra gli eventi epidemici e la guerra. La stessa cosa è successo agli psicoanalisti: abbiamo vissuto un cambiamento nei sentimenti verso noi stessi e il nostro ambiente, soprattutto nei pazienti.
Esempi di ritraumatizzazione con reazioni negative
Per esempio, l’analista di Sarajevo ha detto che tornava a casa “immotivatamente stanca ed esausta” sebbene il carico di lavoro era sempre lo stesso. Ha spiegato che lei, e i pazienti soprattutto, avevano una ridotta capacità di processare. Un giovane paziente ha descritto così la sua situazione: “Mi sentivo solo, non potevo lavorare e quindi stavo a letto” mentre una ragazza ha detto “era nel panico per via dei suoi genitori e del figlio”.
Tutte queste reazioni di passività e mortificazione possono essere il risultato dell’esperienza traumatica dell’assedio di Sarajevo. Anche qui, alcuni pazienti che hanno vissuto più direttamente i traumi di guerra li hanno connessi direttamente all’epidemia. La quarantena e l’isolamento sono stati associati all’isolamento vissuto durante l’esilio. L’epidemia ha sconvolto tutti come un terremoto per chi era stato affetto da traumi di guerra e di altro tipo, e per chi aveva un equilibrio psico-sociale molto fragile nel proprio ambiente, costringendoli a regredire. In realtà, durante la pandemia un terremoto ha realmente colpito Zagabria e ha scosso ulteriormente l’intera area e le sue difese dopo i traumi di guerra. Di conseguenza, una giovane paziente di Sarajevo ha detto che “ho avuto un attacco di panico dopo il terremoto a Zagabria, mi sono sentita impotente e mi sono arrabbiata per via della scarsa capacità di controllo”. Una donna di mezza età di Zagabria si è chiesta “cosa ci aspetta dopo” riferendosi alle piaghe d’Egitto descritte nella Bibbia.
Esempi di lockdown come spazio di cambiamento
Dall’altro lato, lo scossone allo scenario sociale ha causato a volte delle sensazioni opposte. Un’altra giovane paziente di Sarajevo ha affermato “l’epidemia di COVID ci ha messo tutti sullo stesso piano” e che ha “superato le sue insicurezze cucinando e coltivando dei fiori, un’attività rilassante.”
Una giovane paziente di Belgrado ha descritto il lockdown come “uno spazio e un momento privato, libertà e sicurezza, stabilità nel cambiamento piuttosto che vivere ogni giorno situazioni di pericolo.” Questa paziente, sebbene giovane, senza ricordi degli eventi di guerra, è stata fortemente segnata dalla guerra a livello inconscio. La sua data di nascita coincide con uno dei maggiori scontri della guerra, un fatto che stimola alcuni processi interni e le permette di muovere qualcosa dentro di lei. Ha affermato che “alcuni processi inconsci sono avvenuti e che si è aperto qualcosa”. Ha raggiunto “la capacità di esprimere cosa provo e di sentire l’amore senza il bisogno di identificarlo totalmente con l’intimità ed è stato di nuovo possibile condividere. Ho scoperto che il tempo a pensare senza sensi di colpa cose che sono “stupide ma care”, come andare dal parrucchiere o dall’estetista. Prima di ciò, ho cominciato il mio viaggio analitico cominciando a parlare di alcuni vestiti da anziana che mia madre mi aveva portato, come se avessi 40 anni e non 28. Durante il lockdown, ho cominciato a portare “vestiti sportivi” e “mettere da parte il bisogno di impressionare gli altri.”
I pazienti hanno quindi vissuto reazioni opposte alla pandemia ed è toccato all’analista identificare i cambiamenti dell’ambiente. Tuttavia, tutte queste reazioni, i tentativi degli analisti e i ritardi dei pazienti sono connessi al trauma di guerra, come se ogni nuovo trauma fosse a stretto contatto con il trauma di guerra stesso.
È interessante infine come l’isolamento e l’autismo hanno aiutato uno dei pazienti a risanare l’esperienza traumatica primaria della sua famiglia. In una condizione di isolamento, questo paziente non ha solo preso parte al ricordare e ripetere, ma anche al riparare e all’essere creativo. Ha usato il quadro e l’ambiente analitico e la sua relazione con l’analista per sentirsi sufficientemente al sicuro, ciò ha causato o suscitato in lui ricordi che aveva sognato, pensato o elaborato nella sua posizione isolata-autistica. Alla fine è diventato un adolescente creativo, e in un’esperienza parallela ha elaborato la sua condizione traumatica con la madre. Allo stesso tempo, l’isolamento ha riportato immagini e ricordi della sua infanzia connesse al suo compleanno che coincide con una battaglia principale e un’immagine di guerra in casa sua.
Discussione
Adesso parliamo delle reazioni dei nostri pazienti provocate dalla guerra e dalla pandemia in relazione alla “patologia dei confini”.
Le due situazioni estreme descritte di guerra e pandemia sono entrambe traumatiche, ma differiscono in termini di presentazione clinica. Sia in guerra che in pandemia, ci sono diverse reazioni protettive e misure a livello personale e collettivo. Nel materiale clinico presentato possiamo facilmente osservare una “patologia dei confini”. Sia la pandemia da COVID-19 che la guerra sono eventi traumatici per una persona, un gruppo o un sistema. Entrambe le situazioni sono ripetute e vissute come ritraumatizzazione a livello delle barriere. Possiamo riconoscere delle barriere collassanti o disfunzionali nell’individuo e nella persona.
Nello spazio analitico – il nostro scenario clinico è un contenitore sufficientemente sicuro, e questi pazienti possono stabilire una relazione con un’altra persona (l’analista). In questo spazio, i pazienti a Sarajevo e i pazienti a Belgrado hanno potuto far esperienza di barriere disfunzionali e ripararle, il che ha evitato una ritraumatizzazione nella situazione pandemica.
Stando alle idee teoriche, i nostri pazienti stanno provando a trasformare il loro trauma da “puramente economico” (ovvero connesso ai sintomi e non al processo di pensiero) a un trauma che sia assimilato nella loro storia individuale e di gruppo. Spesso gli eventi brutali (incidenti, massacri, guerre, genocidi e olocausti) se lasciati senza significato, diventano solo incidenti di percorso destinati a ripetersi. Perciò, il lavoro analitico crea l’opportunità di trasformare le ripetizioni e le esperienze di morte in un ragionamento storico.
Inoltre, i pazienti hanno condiviso idee e ricordi delle esperienze di guerra traumatiche durante l’assedio di Sarajevo. L’analista li ha aiutati con il proprio controtransfert e sognando con loro nell’esperienza onirica. Questo processo ha aiutato sia il paziente che l’analista ad affrontare il materiale durante le sedute. L’analista, cosciente della propria esperienza traumatica, può offrire lo spazio, il contenitore con una barriera sicura e funzionale, in cui i pazienti possono esprimere e lasciare andare i loro sentimenti insopportabili e le emozioni. Questo può aiutarli a comprendere ciò che sta succedendo. Più avanti, quando l’allentamento delle restrizioni ha ristabilito i confini e le funzioni di barriera tra interno ed esterno, il livello di ansia insostenibile individuale e collettiva è diminuito.
Lo psicoanalista assume il ruolo di un testimone partecipativo. L’analista, come membro della comunità umana, può anche essere stato traumatizzato dallo stesso evento e partecipare al discorso che rende nuovamente attuale l’esperienza e permette alla coppia analitica di condividere sapere e ricordi. Possono usare quel sapere e quei ricordi per il processo di identificazione senza sentire la persecuzione e la tendenza ad evitare.
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Articolo liberamente tradotto e adattato. Fonte: Okorn, I., Jahović, S., Dobranić-Posavec, M., Mladenović, J., & Glasnović, A. (2020). Isolation in the COVID-19 pandemic as re-traumatization of war experiences. Croatian medical journal, 61(4), 371–376. https://doi.org/10.3325/cmj.2020.61.371