Da Shell Shock a PTSD: l’evoluzione del concetto di TRAUMA

Da Shell Shock a PTSD: l'evoluzione del concetto di TRAUMA

I sintomi del disturbo da stress post-traumatico sono stati registrati per millenni, ma ci è voluto più di un secolo perché i medici lo classificassero come disturbo con un trattamento specifico.

Il primo caso di sintomi mentali cronici causati dallo spavento improvviso sul campo di battaglia è riportato nel racconto della battaglia di Maratona di Erodoto, scritto nel 440 a.C.

Sulla scena della prima guerra mondiale, tornando ai nostri tempi, alcuni veterani tornarono feriti, ma non con evidenti ferite fisiche. I loro sintomi erano invece del tutto simili a quelli che in precedenza erano stati associati a donne isteriche –  amnesia, o qualche tipo di paralisi o incapacità di comunicare in assenza di una chiara causa fisica.

Ora sappiamo che ciò che questi veterani di guerra stavano affrontando era probabilmente quello che oggi chiamiamo disturbo post-traumatico da stress, o PTSD.

Shell shock

Il termine shell shock (traducibile in italiano come “shock da combattimento”) fu utilizzato da Charles Myers nel 1915 sulla rivista medica “The Lancet” per definire una serie di disturbi riportati da molti soldati ed ufficiali durante la prima guerra mondiale. Myers ipotizzò che le lesioni cerebrali fossero una conseguenza della vicinanza ai bombardamenti, dovute al rumore eccessivo e all’avvelenamento da monossido di carbonio, ma non era così,  i danni cerebrali erano presenti anche in soggetti lontani dai bombardamenti.

La guerra era terminata, le battaglie finite, ma i soldati avevano flashback, incubi, attacchi di panico, ansia, tendenze suicide, aggressività ingiustificata, squilibrio e depressione. E ancora palpitazioni, tremori, paralisi.

I soldati vennero portati nei manicomi, dove spesso la terapia consisteva nell’elettroshock.

In Italia venne ritenuto sconveniente attribuire alla guerra i traumi psichici riportati dai militari, 40.000 uomini con disturbi mentali finirono rinchiusi nei manicomi statali.

La gente prese a chiamarli “scemi di guerra”.

 

Seconda Guerra Mondiale

Con la Seconda Guerra Mondiale, gli psichiatri riconobbero che i combattimenti avrebbero potuto avere conseguenze sulla salute mentale e conclusero che nella I guerra mondiale erano stati scelti molti uomini inclini all’ansia o a “tendenze nevrotiche”.

Ma nonostante screening e la decisione di non arruolare soggetti “a rischio”, circa il doppio dei soldati americani mostravano sintomi di PTSD durante la Seconda Guerra Mondiale rispetto alla Prima Guerra Mondiale. Questa volta la loro condizione fu chiamata “collasso psichiatrico“, “stanchezza da combattimento” o “nevrosi da guerra“.

Sindrome post-Vietnam

Durante la Guerra del Vietnam il termine passò da “reazione da forte stress” a “disturbi adattivi della vita adulta”.

Nel 1972 lo psichiatra Chaim Shatan coniò il termine “Sindrome post-Vietnam”, i veterani del Vietnam erano tornati a casa da anni, e molti erano afflitti da torpore emotivo, instabilità, flashback e rabbia.

Nel 1980, il “disturbo da stress post-traumatico da stress” divenne una diagnosi formale nella terza edizione del DSM. Dodici anni dopo, è stata adottata anche nella Classificazione internazionale delle malattie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

PTSD

Oggi la definizione di PTSD è più inclusiva che mai, e rappresenta la possibile risposta di un soggetto ad un evento critico abnorme (terremoti, incendi, nubifragi, incidenti stradali, abusi sessuali, atti di violenza subiti o di cui si è stati testimoni, attentati, azioni belliche, etc.). Ma l’aver vissuto un’esperienza critica di per sé non genera automaticamente un disturbo post-traumatico. La prevalenza è di circa il 6,8%, con una variabilità dovuta al tipo di evento.

I primi sintomi del PTSD sono spesso ritardati e sono separati dal trauma da un periodo di latenza, poi il disturbo tende a seguire un decorso cronico e i sintomi non si attenuano con il tempo

I pazienti con PTSD vengono abitualmente classificati in tre categorie:

  • primari, le vittime dirette che hanno subito personalmente l’evento traumatico
  • secondari, i testimoni diretti dell’evento, o i parenti delle vittime primarie (ad esempio, nel caso di un lutto)
  • terziari, il personale di soccorso (volontario o professionale) che si trova ad operare con le vittime primarie o secondarie.

I principali disturbi sono riassunti dalla cosiddetta “triade sintomatologica”: intrusioni, come flashback, evitamentohyperarousal (iperattivazione psicofisiologica), caratterizzato da insonnia, irritabilità, ansia, aggressività e tensione generalizzate.

Nel tempo, i ricercatori hanno sviluppato nuovi trattamenti per il PTSD e investigato su come il trauma  colpisce il cervello e il corpo.

Un punto importante su cui ci si è concentrati è sulla possibilità che gli effetti del trauma e dello stress possano essere trasmessi da una generazione all’altra attraverso cambiamenti chimici che influenzano il modo in cui il DNA viene espresso. Uno studio del 2018, ad esempio, ha evidenziato un’elevata mortalità tra i discendenti di uomini sopravvissuti ai campi di prigionia della Guerra Civile nel 1860.

Un’ importante studio di Rachel Yehuda ha esaminato i campioni di sangue di 32 sopravvissuti all’olocausto e dei loro 22 figli adulti, confrontandoli con un gruppo di controllo composto da coppie ebree e rispettivi figli, che presentavano la metilazione dell’introne 7, una regione specifica all’interno del gene FKBP5. La metilazione del FKBP5 è un gene stress-correlato che è stato associato con il Disturbo post-traumatico da stress e la depressione.

Lo studio ha rivelato che sia i sopravvissuti all’Olocausto che i loro discendenti mostravano cambiamenti epigenetici nello stesso sito (introne 7) del FKBP5, ma in direzione opposta: i sopravvissuti all’Olocausto presentavano una metilazione del 10% superiore a quella delle coppie del gruppo di controllo, mentre i figli dei sopravvissuti avevano una metilazione del 7,7% inferiore rispetto alla prole del gruppo di controllo, suggerendo che il trauma dei genitore è un contributo rilevante per le modificazioni biologiche della prole”.

Trauma e pandemia COVID

Negli ultimi mesi gli studiosi stanno esaminando i potenziali effetti della pandemia COVID-19.

La pandemia e i fattori di stress ad essa associati possono anche avere gravi conseguenze sulla salute mentale. È abbastanza normale che si verifichi un’angoscia come risultato di uno stress cronico di questa portata. Le perdite reali (di persone care, senza la possibilità di un funerale rituale) o simboliche (feste di laurea) abbondano. Ci può essere dolore per molti, e dolore irrisolto per alcuni. L’isolamento può portare alla depressione per molti e all’ideazione suicida per alcuni. Ma non ci sarà una risposta “unica” a questa crisi.

Decenni di scienza psicologica sui traumi collettivi indicano che le risposte degli individui si basano probabilmente su diversi fattori. Tra questi vi sono le loro circostanze pre-pandemiche e le loro esposizioni prioritarie in termini di risorse alle avversità, le vulnerabilità fisiche e mentali e i sostegni economici e sociali. Bisogna anche considerare le esposizioni incontrate durante la pandemia: un membro della famiglia si è ammalato? La persona ha perso il lavoro? L’individuo era operatore sanitario in prima linea?

Le risposte emotive e comportamentali a questa crisi in corso saranno multi-determinate ma non casuali.

Se vuoi venirne fuori devi passarci nel mezzo
(Robert Frost)

 

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