Assistiamo ad un crescente impegno normativo, istituzionale e operativo sempre più orientato a contrastare, non solo i reati ma anche i possibili disagi derivanti dall’incontro tra le vittime e il sistema di risposte istituzionali fin dall’inizio dell’iter giudiziario.
Da una parte, il sapere psicologico e criminologico hanno sviluppato conoscenze approfondite sugli scenari di vulnerabilità derivanti dall’offesa subita (con particolare riferimento ai reati di violenza sessuale, atti persecutori, child abuse e violenza domestica) e dall’impatto, talvolta ulteriormente traumatico, delle vittime con il sistema giudiziario (ma anche sociale e sanitario). Dall’altra, la norma ha rafforzato il sistema degli strumenti di protezione, fin dalla raccolta delle prime dichiarazioni.
Alcuni studi hanno consentito di evidenziare le differenze tra i danni causati dall’offesa subita e quelli derivanti dalla risposta delle istituzioni. Questi ultimi, correlati all’impatto con regole e mo-dalità di funzionamento tipiche della giustizia penale, rendono possibile l’emergere di nuovi rischi di amplificazione e “nuclearizzazione della vulnerabilità della vittima”.
Le ricerche che hanno analizzato questo “terzo livello di vulnerabilità” sono state particolarmente utili per l’intervento, orientando le procedure necessarie a migliorare il sistema di risposte fornite alla vittima all’interno sistema giustizia, alleviandone i disagi e potenziando, al contempo, l’efficacia (in termini di attendibilità) del suo contributo conoscitivo.
In un noto studio degli anni settanta sulla “vittimizzazione secondaria” (condizione di sofferenza psicologica della vittima non derivante direttamente dall’offesa subita bensì dalla risposta formale, conseguente al reato, ricevuta durante l’iter giudiziario in contesti quali procure, tribunali, uffici di polizia e servizi territoriali) in caso di violenza sessuale vengono evidenziati alcuni aspetti di forte incidenza, in particolare:
- la durata dell’azione penale (il tempo che trascorre tra la denuncia, la fase delle indagini preliminari e l’eventuale processo);
- la pubblicità delle udienze (la vittima si trova a dover dichiarare le proprie generalità, descrivere i dettagli dell’accaduto, riferire sulla sua vita privata in presenza di estranei);
- il coinvolgimento delle vittime durante il procedimento/processo per l’accertamento del reato, la valutazione della sua credibilità e la raccolta di fonti di prova.
Ove ritenuto necessario, investigatori e magistrati possono anche indagare sull’eventuale consenso della vittima, sulla sua reputazione, sul suo stile di vita, sul suo carattere ecc., talvolta in modo “invasivo” e non tutelante, così da esporla a ulteriori rischi di vittimizzazione.
Interviene in tal senso la Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 (2012/29/UE) recante Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato che, al principio n. 53, sottolinea l’opportunità di: “limitare il rischio di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni – da parte dell’autore del reato o a seguito della partecipazione al procedimento penale – svolgendo il procedimento in un modo coordinato e rispettoso, che consenta alle vittime di stabilire un clima di fiducia con le autorità”.
Viene affermata la necessità di rendere meno traumatico possibile l’incontro della vittima con la giustizia, attraverso strumenti adeguati che limitino il numero di audizioni (come le registrazioni video) e gli incontri con gli autori in udienza, e una gamma varia di misure a disposizione di operatrici e operatori della giustizia per evitare sofferenza alle vittime durante il procedimento giudiziario.
Sulla scia di quanto descritto si è sviluppato un ampio filone di ricerche, volte a indagare il ruolo svolto dalla vittima nell’ambito del processo penale e ad analizzare in dettaglio le sue esigenze, aspettative, opinioni. In particolare, l’attenzione si è rivolta ai processi di vittimizzazione che interessano alcune categorie di persone – minorenni, anziani e donne – che per caratteristiche individuali (fisiche, psicologiche, culturali o sociali) e/o situazionali (tipologia di offesa subita, durata e livello di intensità della vittimizzazione, ecc.) e/o relazionali si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità e rispetto alle quali si ritiene che le conseguenze del reato si possano manifestare in misura maggiore rispetto ad altri soggetti.
Una prima strategia di protezione è stata introdotta nel 1996 con la legge n. 66 sulla violenza sessuale, prevedendo tra l’altro che la raccolta della testimonianza in sede processuale di vittime minorenni potesse avvenire anche in luoghi diversi dalle aule di un tribunale e anticipando i tempi precedentemente previsti ovvero anticipando la fase dibattimentale.
La successiva normativa ha ulteriormente ampliato i margini di protezione. Ad oggi strumenti di tutela sono anche il fatto di prevedere che la prima raccolta di informazioni da parte della polizia giudiziaria di vittime minorenni o adulte in condizioni di vulnerabilità rispetto a diverse tipologie di reato (indicate all’articolo 351 comma 1 ter cpp) debba prevedere l’ausilio di un esperto in psicologia o in psichiatria infantile nominato dal pubblico ministero oltre alla registrazione dell’atto e ad altre forme di tutela per le vittime come l’accesso al gratuito patrocinio, il diritto ad avere un supporto linguistico e informativo.
I tanti aggiornamenti normativi hanno modificato le procedure operative da adottare a livello giudiziario e senza dubbio restituito centralità al ruolo degli psicologi e delle psicologhe al fianco dei referenti istituzionali, richiamando però la necessità di acquisire competenze e sempre maggiore specializzazione.
La Direttiva 2012/29/UE ha ampliato la portata del sistema delle protezioni – già precedentemente avviata anche attraverso l’adesione e conseguente ratifica di importanti Convenzioni europee (Convenzione di Lanzarote e Convenzione di Istanbul) – definendo un nuovo panorama che regola il sostegno alle vittime, i loro diritti e il loro accesso alla giustizia.
La Direttiva delinea, infatti, i principi cui devono essere ispirati i servizi offerti alle vittime: dalla valutazione individuale del bisogno di protezione, necessaria per la definizione di un trattamento mirato, alla complessiva articolazione di misure di protezione globale durante tutte le fasi del procedimento penale.
Sono in tal senso nate diverse progettualità rispetto alle quali il territorio giudiziario della Regione Lazio si contraddistingue per le virtuose iniziative nate in seno a diverse procure della repubblica e tribunali, in rete con il sistema sanitario, l’avvocatura e l’Ordine degli Psicologi del Lazio.
Esperti ed esperte di PsicoIus hanno fatto parte di queste progettualità in un’ottica continua di scambio, integrazione e contaminazione di saperi.