Prof.ssa Patrizia Patrizi, Lei ha curato l’edizione del libro La giustizia riparativa. Psicologia e diritto per il benessere di persone e comunità pubblicato da Carocci: innanzitutto, cos’è la giustizia riparativa?
Mi rifaccio a due definizioni in particolare:
- la prima è tratta dall’Handbook on Restorative Justice Programmes (2006) delle Nazioni Unite,
- la seconda dal volume Connecting People to Restore Just Relations. Practice Guide on Values and Standards for Restorative Justice Practices (2018), dell’EFRJ – European Forum for Restorative Justice, la più ampia e riconosciuta rete europea di studiose e studiosi, professionisti e professioniste, organizzazioni impegnate nello sviluppo e la diffusione della giustizia riparativa in Europa e nel mondo.
La giustizia riparativa è un diverso modo di guardare al crimine o a qualunque altro illecito e, in maniera più ampia, a ogni comportamento che abbia trasgredito le attese sociali: cambiando lenti (dal titolo di un’opera del 1990 di H. Zehr, uno dei padri della giustizia riparativa). Cambiare lenti significa individuare qual è il cuore della questione. Il reato (o l’illecito) non si identifica con il comportamento, di cui è solo definizione giuridica; chi ha compiuto l’azione è persona, prima che ruolo giudiziario (indagata, imputata, condannata); chi ne ha subito le conseguenze è, prima ancora che parte offesa o vittima, una persona danneggiata. Il “danno” è al centro della giustizia riparativa, lo sono la sofferenza, le conseguenze per il torto subito.
Nella giustizia penale, la vittima è assente; la comunità è distante. Citando N. Christie, altra autorevole voce della giustizia riparativa, lo Stato si appropria dei conflitti delle persone (l’autore parla proprio di “ladri professionisti”, 1977), estromette la vittima e chiede all’autore di rispondere alla legge. Al male che è stato commesso non consegue un’azione di riequilibrio, di assunzione di responsabilità rispetto a chi ha subito. Piuttosto si risponde a quel male con altro male (la pena inflitta), nell’attesa (dichiarata) che ciò possa produrre un bene. Lo stesso riconoscimento, da parte dell’autore, delle responsabilità verso la persona danneggiata è fortemente sfidato all’interno di un processo accusatorio che, inevitabilmente, sollecita più a giustificarsi (accusa e difesa) che ad assumere posizioni attive di riparazione.
Questo è il cuore della giustizia riparativa (Zehr): il crimine è una violazione di persone e di obblighi; le violazioni creano obblighi; la giustizia coinvolge vittime, responsabili e componenti della comunità in un impegno a mettere le cose a posto (renderle giuste). Il focus sta sui bisogni della vittima e sulla responsabilità dell’autore nella riparazione del danno.
Ciò non significa che la giustizia riparativa intende sostituirsi a quella penale. Il suo obiettivo è ricostruire giustizia attraverso un processo partecipato in cui i bisogni delle vittime possano trovare risposte e le responsabilità degli autori siano rivolte a chi ha subito. Il coinvolgimento della comunità, come vedremo in seguito, è fondamentale.
Quali valori guidano la giustizia riparativa?
I valori della giustizia riparativa sono quelli alla base delle relazioni fra persone e di una convivenza pacifica: rispetto per la dignità umana; solidarietà e responsabilità; ricerca delle verità (non forensi, ma personali) attraverso il dialogo; giustizia, intesa non nel senso formale ma di sostanza delle cose giuste. Ne discendono alcuni principi fondamentali che possano garantire il processo e l’incontro: partecipazione volontaria basata sul consenso informato; comunicazione diretta e autentica; processi progettati per soddisfare le esigenze, le capabilities e la cultura dei partecipanti; valutazione equa dei bisogni e dei desideri di ogni partecipante; facilitazione non giudicante, multiparziale; importanza del dialogo; implementazione rigorosa delle azioni concordate.
In sintesi, la giustizia riparativa si configura come pensiero e come pratiche di accoglienza e cura delle persone, delle relazioni, delle comunità sociali: tutte in sofferenza a causa del crimine o di altro illecito, tutte con un bisogno di riparazione del danno, di ricostruzione del senso di fiducia, di ricomposizione dei conflitti per risanare ferite delle persone e fratture del tessuto sociale, di prevenzione di comportamenti dannosi. Non si tratta, quindi, di una giustizia che intende “rimuovere” il passato, ma utilizzarlo per la prospettiva attesa di un futuro migliore, un futuro di sicurezza, fiducia, responsabilità e benessere di tutte le parti coinvolte.
Quali programmi rientrano nel paradigma della restorative justice?
All’interno del paradigma della giustizia riparativa si possono pensare differenti programmi, in funzione del contesto sociale, economico, culturale, nonché delle capacità di accoglienza di formule alternative di gestione dei conflitti. È possibile distinguere fra programmi pienamente riparativi (quelli cui partecipano tutte le parti coinvolte: responsabile, vittima, comunità); prevalentemente riparativi (cui partecipano solo due dei tre protagonisti); parzialmente riparativi (cui partecipa solo uno dei protagonisti) (McCold, Wachtel, 2003). Fra i primi, citiamo le family group conference, le conferenze[5] di comunità, e i peace circles. Esempio potente di programma pienamente riparativo è la Commissione per la verità e la riconciliazione voluta da Nelson Mandela nel 1995.
La Commissione lavorò con il mandato di raccogliere le testimonianze di vittime e carnefici dei crimini politici commessi negli anni dell’apartheid, per realizzare un processo di pacificazione fondato sulla rinuncia alla vendetta, a combattere la violenza con altra violenza. Ricostruire le verità, consentire alle vittime di essere ascoltate, sostenerle nella narrazione della propria storia di abusi subiti e del dolore, supportarle nella riconquista della dignità violata, sollecitare i colpevoli a testimoniare: questo il lavoro svolto dalla commissione. Fra i programmi prevalentemente riparativi: la mediazione vittima-autore, la restituzione alla vittima, i circles di supporto alle vittime, le conferenze senza le vittime, le comunità terapeutiche. Fra quelli solo parzialmente riparativi: servizi per le famiglie dell’autore di reato, lavoro sociale centrato sulle famiglie, lavoro di comunità, programmi che si rivolgono specificamente all’autore, per esempio quelli per sex offender orientati a promuovere abilità sociali e relazionali. Diversa, ovviamente, è la portata del programma a seconda del grado di partecipazione dei protagonisti, ma, in ogni caso, ciò che consente di definire riparativo un programma è la sua adesione ai valori e ai principi che guidano la Restorative Justice.
Fondamentale è la presenza di una figura competente nella facilitazione del processo. A questo è dedicata ampia parte della recente Raccomandazione CM/Rec(2018)8 del Consiglio d’Europa.
In che modo è possibile superare il paradigma retributivo e l’automatismo fra reato e sanzione?
L’affermazione di un nuovo paradigma passa attraverso processi di conoscenza, di condivisione, di prove della sua validità. Con riguardo all’ultimo punto, le ricerche condotte nei Paesi in cui la giustizia riparativa è attuata (ne parla, nel suo capitolo, Tim Chapman, presidente dell’EFRJ) mostrano alti gradi di soddisfazione delle vittime (e dei responsabili) che hanno partecipato a programmi riparativi, nonché una sensibile riduzione della recidiva. Questo dato riguarda anche l’Italia relativamente allo spazio normativo più vicino alla possibilità di attuare processi riparativi: la sospensione del processo e messa alla prova per persone minorenni (art. 28, DPR 448/88) (v. capitolo di Federico Palomba, peraltro estensore della legge).
La giustizia riparativa, d’altro canto, non intende ridurre la portata giuridica del crimine, ma lavorare su ciò che il reato contiene: persone autrici e vittime, luoghi e comunità, danni, sofferenze. Eloquente, per comprendere questo elemento di riconduzione del reato alle dimensioni personali, relazionali e sociali del comportamento, appare l’esperienza neo-zelandese del Children, Young Person, and Their Families Act del 1989, una normativa fondata sulla tradizione riparativa della cultura maori. Si tratta, in particolare, di un modello di risposta al reato basato sul consenso di gruppo, dove il tribunale non può prendere decisioni se non a partire dalle proposte elaborate nell’ambito di una family group conference cui partecipano, oltre ai diretti interessati e alle figure con funzioni giudiziarie, le famiglie e componenti della comunità. È per mandato della comunità e insieme alla comunità che si individuano soluzioni pro-attive, responsabili e responsabilizzanti, ai conflitti.
Nel nostro Paese sono stati fatti vari tentativi di introdurre programmi di giustizia riparativa nell’attuale sistema penale. Il Tavolo 13 degli Stati generali dell’esecuzione penale aveva presentato proposte interessanti (purtroppo non recepite), i nostri ordinamenti giuridici consentirebbero delle aperture e alcuni cambiamenti si sono realizzati (per esempio il richiamo alla giustizia riparativa nel nuovo Ordinamento penitenziario minorile). È necessario lavorare molto in chiave di informazione, disseminazione (per esempio dei risultati che la giustizia riparativa può consentire di raggiungere), di coinvolgimento, perché ciò di cui stiamo parlando riguarda un cambiamento culturale, non solo normativo. È necessario comprendere e far comprendere che se il crimine non paga, l’afflizione della pena non restituisce.
Per effetto della detenzione, si fanno altre vittime, come le famiglie di detenute e detenuti, come i detenuti stessi, privati della possibilità effettiva di restituzione e reinserimento attivo; le vittime continuano a vivere in solitudine la loro sofferenza, senza avere voce, senza occasione di chiedere e ottenere risposte, frequentemente oggetto di doppia vittimizzazione proprio per effetto delle attività di giustizia (pensiamo agli interrogatori, alla ricerca della verità, delle vittime di violenza sessuale che spesso, proprio per effetto di quelle procedure, finiscono per sentirsi colpevoli per non essere riuscite a evitare la violenza, talora, addirittura, di averla provocata per stile di vita, abbigliamento, comportamento non conforme); le comunità sociali vivono allarmi talora superiori al rischio concreto di diventare vittima di reato e la distanza percepita dalla giustizia e dai suoi meccanismi alimenta rancore e sfiducia. È necessario lavorare insieme per costruire il cambiamento possibile.
Una recente iniziativa europea sostenuta dall’EFRJ vede l’Italia fra i 10 Paesi aderenti. L’obiettivo è proprio quello di diffondere la Raccomandazione europea, coinvolgere sistema di giustizia e stakeholder nell’individuazione degli step necessari per promuovere quel cambiamento.
Qual è l’importanza della comunità nello sviluppo di relazioni riparative?
La comunità ha un ruolo fondamentale nella giustizia riparativa, credo di averla citata in ognuna delle mie risposte: perché è protagonista, insieme a vittima e responsabile, sia dei conflitti che precedono comportamenti dannosi, sia delle conseguenze che quei comportamenti generano, sia dei processi attraverso cui riparare l’ingiustizia e prevenire che nuove ingiustizie si verifichino. Una protagonista che, per potersi coinvolgere, ha bisogno di capire: che la giustizia riparativa non è una modalità soft di rispondere al crimine, una formula per non chiedere responsabilità a chi lo ha commesso.
Della giustizia riparativa beneficiano tutte le parti: la vittima, che ha la possibilità di essere ascoltata e di avere quelle risposte che solo chi ha commesso il reato può conoscere (perché l’ha fatto? ha considerato la sofferenza che stava producendo? perché l’ha fatto proprio a me? come pensa di riparare al danno?); l’autore, che ha la possibilità di assumere responsabilità concrete, attive nei confronti di chi ha subito il danno, di chi è in sofferenza per le conseguenze che ne sono derivate (perdite, paura, diffidenza ecc.), che ha la possibilità di impegnarsi per una vita migliore; la comunità, che ha interesse a una convivenza pacifica, sicura, ad assicurare il migliore livello di qualità di vita per tutte le sue componenti, nessuna esclusa.
La citazione della norma neo-zelandese costituisce esempio di come la comunità può prendere parte ai processi decisionali riconoscendosi un ruolo attivo nell’individuazione della risposta più efficace e rispettosa di bisogni, diritti, interessi di tutte le parti.
Ma l’aspetto che vorrei evidenziare, in quest’ultima risposta, è l’apprendimento che tutte e tutti noi possiamo fare praticando valori e principi della giustizia riparativa nel nostro quotidiano. Esiste un movimento di quelle che si definiscono comunità o città riparative. Fra le prime europee, la città di Hull in Inghilterra che, a partire dalle scuole, ha trasformato in chiave riparativa tutti i servizi cittadini. L’EFRJ ha di recente istituito un gruppo di lavoro sulle Restorative Cities. Io stessa, con il mio gruppo, il Team delle pratiche di giustizia riparativa dell’Università di Sassari, ho avviato nel 2014 un progetto di costruzione di una comunità locale ad approccio riparativo.
In quel caso siamo partiti dal carcere di alta sicurezza di Nuchis per poi estendere alle scuole di Tempio Pausania, ma il punto di avvio per coinvolgere le comunità sociali può essere una scuola, un quartiere, un ambito di vicinato, un’organizzazione, oppure un conflitto attivo che mette in sofferenza persone, relazioni, luoghi sociali. Apprendere l’agire riparativo significa conoscere nell’esperienza i valori che possono guidare le nostre azioni. Quando un conflitto si genera, o per prevenirne gli effetti dannosi, si possono attuare diverse strategie: quella autoritaria, punitiva, fatta di rabbia; quella indifferente, evitante, fatta di paura; quella protettiva, salvifica, fatta di commiserazione. La risposta riparativa fa interagire alta responsabilità (non solo nel senso di attribuzione, ma di orientamento a rispondere delle proprie azioni agli altri) e alto supporto sociale. L’esito è agire con rispetto.
Questa è la prospettiva di benessere di persone e comunità che il volume intende tracciare. Tale prospettiva è in linea con quanto affermato dall’Agenda 2030, che considera obiettivi ineludibili promuovere «società pacifiche, giuste e inclusive, che siano libere dalla paura e dalla violenza», rafforzare protezione e benessere sociale, giustizia, non discriminazione: per la trasformazione del nostro mondo in un mondo sostenibile, un mondo migliore. Alla base vi è il rispetto della dignità umana, la consapevolezza che sono le persone a fare i loro mondi, e che i conflitti inascoltati o delegati mantengono aperte ferite e aumentano distanze; che le persone, per poter superare i conflitti, per rinarrare sé stesse e la propria storia in chiave trasformativa rispetto alle emozioni negative connesse a danni generati o subiti, devono sentire riconosciute le proprie verità e ascoltati i propri bisogni di riequilibrio.
Le autrici e gli autori
Tim Chapman, Carla Ciavarella, Vera Cuzzocrea, Bruna Dighera, Luciano Eusebi, Gian Luigi Lepri, Ivo Lizzola, Ernesto Lodi, Marianna Madeddu, Grazia Mannozzi, Brunilda Pali, Federico Palomba, Patrizia Patrizi, Antonio Turco, Francesca Vitale.
Patrizia Patrizi, psicologa e psicoterapeuta, è ordinaria di Psicologia giuridica e pratiche di giustizia riparativa nel Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell’Università di Sassari. È presidente di PsicoIus – Scuola romana di psicologia giuridica e componente del board dell’EFRJ. Fra le opere di cui è autrice: Psicologia della devianza e della criminalità (2011) e Manuale di psicologia giuridica minorile (2012).
Fonte: https://www.letture.org/la-giustizia-riparativa-psicologia-e-diritto-per-il-benessere-di-persone-e-comunita-patrizia-patrizi/