Con centinaia di studi pre-clinici/clinici e decine di meta-analisi che ne attestano l’efficacia, la terapia di esposizione, ossia il ripetuto confronto con lo stimolo temuto, è uno tra i trattamenti psicologici più empiricamente supportati per i disturbi d’ansia, infatti, le principali linee guida per la pratica clinica la raccomandano come trattamento di prima linea.
Malgrado le evidenze scientifiche, tuttavia, l’esposizione sino ad oggi ha dimostrato di non essere una terapia sempre infallibile, infatti, non tutti i pazienti dimostrano di beneficiarne ed un numero considerevole di essi sperimenta un ritorno dei sintomi dopo il trattamento conclusosi con successo. A tal proposito, però, recenti osservazioni sul ritorno della paura (negli animali ed umani) e nuove scoperte ottenute in ambito neurobiologico sul processo di estinzione, hanno favorito lo sviluppo di un nuovo modello concettuale capace di fornire una più parsimoniosa spiegazione riguardo al funzionamento della terapia e di proporre modalità operative in grado di potenziarla.
Sino ad oggi molti terapeuti sono stati addestrati (erroneamente) all’uso dell’esposizione sulla base di una logica di “assuefazione dell’ansia”.
Michelle Craske: Exposure strategies – state of the art
Tipicamente, veniva chiesto al paziente di affrontare lo stimolo minaccioso con l’obiettivo di ridurre almeno del 50% la sofferenza entro la fine di ogni sessione. Si pensava che il processo di esposizione avesse avuto successo se queste riduzioni di ansia (assuefazione) fossero avvenute. Tuttavia, negli ultimi due decenni, è stato dimostrato che non c’è molto supporto sperimentale per tale tesi e che quanto creduto sia sbagliato e fuorviante. E’ stato documentato, infatti, che la riduzione dell’ansia, durante la seduta e tra una seduta e l’altra, non è predittiva del risultato finale.
Sulla base di queste dimostrazioni e grazie ad ulteriori scoperte riguardanti il processo di estinzione nel cervello, oggi è opinione condivisa che la terapia espositiva non funzionerebbe grazie all’abituazione dell’ansia ma agirebbe, invece, mediante la formazione di una nuova memoria che interferirebbe con quella originaria di minaccia, perciò una “memoria antagonista ed inibitoria” (Craske et al. 2014).
Il nuovo apprendimento competitivo dipenderebbe dalla formazione di un circuito neurale inibitorio situato tra la corteccia prefrontale e l’amigdala. Nello specifico la corteccia prefrontale ventromediale infralimbica, durante l’esposizione allo SC, inibendo l’espressione dell’amigdala e rafforzando al contempo le sinapsi di recente attivazione, plasmerebbe nuovi schemi di connessioni sinaptiche tra i vari neuroni della rete facendoli diventare la sede della nuova memoria inibitoria.
L’idea che sia questo il modo in cui funziona l’estinzione della minaccia nel cervello è emersa dagli studi fatti da Maria Morgan nei primi anni novanta (Morgan et al. 1993) e, ad oggi, è ampiamente condivisa. Considerando l’apprendimento inibitorio, dunque, come il vero meccanismo di funzionamento della terapia espositiva, negli ultimi due decenni si è iniziato ad indagare la possibilità di rinforzare la formazione, il consolidamento ed il recupero di tale apprendimento mediante specifiche strategie comportamentali, farmacologiche e di neuromodulazione. Nasce così, a cavallo tra gli anni ‘90 e 2000, un nuovo modo di intendere e di fare esposizione.
Fear, extinction and exposure with Fear by Joseph LeDoux
Materiale per l’approfondimento
Articoli
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Libri
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