Bibbiano, se questo è un colloquio

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Bibbiano, se questo è un colloquio

In questi giorni è stato diffuso dei media uno spezzone di un colloquio clinico di Nadia Bolognini, coinvolta nell’indagine di Bibbiano, ora agli arresti domiciliari. La collega, travestita da lupo, svolge un’interazione peculiare, molto aggressiva e violenta, con un bambino di cui non sappiamo nulla. Si tratta di uno spezzone di pochi secondi, privi di elementi essenziali di contesto, che fornisce tuttavia alcuni spunti di riflessione.

 

 

Ha senso anzitutto chiedersi se ci troviamo di fronte a un vero e proprio colloquio clinico.

Riprendendo Sergio Erba, che, lo ricordo, considera il “ruolo” come parte essenziale del setting di un colloquio clinico, l’utilizzo di un tono esplicitamente “gridato” e della maschera da lupo indossata dalla collega pone il terapeuta al di fuori del setting di un intervento clinico. Ricordiamo gli attributi del ruolo di chi conduce qualunque colloquio clinico: ottimismo, autorevolezza, parentalità, adultità, competenza. Appare evidente che non ci troviamo certamente in una di queste situazioni. L’urlo e la maschera sono elementi potenzialmente molto destabilizzanti, non solo per un bambino traumatizzato.

Tuttavia, si può imparare qualcosa anche dalle uscite dai setting, che, in forma magari meno plateale possono riguardare anche altri psicologi.

Cosa fa quindi la Bolognini? Si tratta forse di un interrogatorio? Di un role playing?

Certamente è difficile ricondurre questo spezzone ad una metodologia di colloquio nota, tanto che potrebbe perfino rilevarsi una violazione disciplinare ai sensi degli articoli 5 e 21, se il metodo si rivelasse del tutto autoreferenziale, centrato su quello che è passato ai discutibili onori della cronaca come “metodo Foti”. La violazione dell’articolo 21 punisce lo psicologo che abbia prodotto danni con la propria condotta al paziente e potrebbe essere una diretta conseguenza di una condotta non sufficientemente chiara e riferibile a una teoria accreditata.

Ma proseguiamo a valutare lo spezzone secondo la teoria del colloquio clinico andando a saccheggiare la teoria di Antonio Alberto Semi. Anche da questo punto di vista, i prerequisiti per svolgere un colloquio non ci sono. Manca soprattutto, e con grande evidenza quella neutralità fatta al tempo stesso di curiosità, di disponibilità attenta e rispettosa che in questo caso non è certo stata rispettata. Difficilmente ci si può trovare così distanti dalla neutralità.

Soprattutto, tuttavia, occorre confrontarsi con le regole del colloquio clinico richiamate dallo psicanalista romano.

La reazione del bambino alle urla del terapeuta

Vi invito a osservare un aspetto che potrebbe passare a prima vista inosservato, la reazione del bambino alle urla della terapeuta: “lascia stare, molla tutto lì, guai a te, sei in punizione!

In modo del tutto incongruo con l’atteggiamento dell’interlocutrice il bambino infatti sembra ridere seppure in maniera inquietante e innaturale di fronte all’atteggiamento iperbolicamente aggressivo adottato dalla terapeuta mascherata come tecnica di intervento.

 

Assistiamo alla violazione esplicita di due regole fondamentali del colloquio secondo Semi: la regola del linguaggio e la regola della reciprocità.

Secondo la prima, il terapeuta dovrebbe utilizzare un linguaggio che sia il più vicino possibile a quello adottato dal paziente. In questo caso, trattandosi di un bambino, sarebbe sbagliato discostarsi non solo dalle competenze lessicali del bimbo, ma anche evidentemente dal tono e dallo stile linguistico, che sono parte integrante della pragmatica della comunicazione così come viene interpretata dal bambino. L’utilizzo da parte della terapeuta di uno stile completamente diverso da quello del bambino, ovvero la violazione della regola del linguaggio produce sconcerto, genera una sorta di corto circuito; egli reagisce di fronte a una situazione ridicola e sicuramente inquietante.

Non entro volutamente nel merito della suggestione, che potrebbe essere, secondo gli inquirenti, la funzione propria dell’interazione che abbiamo ascoltato. Certamente la funzione critica e la capacità di pensiero e rievocazione viene messa in scacco dall’atteggiamento della psicologa.

Regola della reciprocità

Ed è questo ciò che si intende evitare con la “regola della reciprocità”; il paziente, in questo caso il bambino, deve poter in qualche modo restituire, scambiare quanto ricevuto dal terapeuta sullo stesso piano; un simile role playing, nella sua velleità di elicitare in maniera estremamente diretta, e apertamente suggestiva degli elementi del passato, rischia peraltro di essere del tutto fuori centro, perturbante e incomprensibile.

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