Il colloquio clinico come atto tipico dello psicologo

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Il colloquio clinico come atto tipico dello psicologo

Nel film “Il discorso del re” Colin Firth dice: “Chiunque riesca a gridare vocali da una finestra aperta può imparare a tenere un discorso”. Un discorso è quindi flatus vocis, come sosterrebbero i nominalisti, un aggregato di parole che fa vibrare l’aria. Ci possiamo chiedere se sia così anche per il colloquio clinico, ovvero, cosa differenzia qualunque altra semplice emissione della voce da un colloquio clinico?

Cosa è nella sua essenza il colloquio clinico?

Se si pone la domanda a un collega, sarà facile ricevere una risposta: il colloquio clinico è lo strumento dello psicologo e dello psicoterapeuta, il suo atto professionale più tipico e specifico. Gli atti tipici sono quelle azioni che prevedono l’uso di strumenti riservati solo ed esclusivamente alle professioni ordinate, sono azioni tecniche specifiche di una professione riconosciuta (es. una prescrizione, l’atto materiale dell’invio della dichiarazione dei redditi per via telematica, l’atto della somministrazione di un test, l’atto della certificazione relativa ai calcoli di sostentamento di un ponte, ecc.).

Quindi, tutt’altro che non sia flatus vocis, tutt’altro dall’uso generico della parola come emissione di voce, ma, al contrario, uno strumento con regole precise. Semi, Gabbard, Mc Williams, Erba, Gislon e Massimo Recalcati sono solo alcuni autori che hanno individuato regole precise per l’esercizio del colloquio psicologico.

L’atto tipico dello psicologo, come professione che ha il suo fulcro tecnico nell’uso della parola come simbolo, è faccenda decisamente complicata.

Non è banale. E’ un bel problema per i Carabinieri che si occupano di esercizio abusivo di professione psicologica, poiché lo “strumento” che cercano non può essere trovato in una perquisizione, è intangibile. Non sfuggirà l’intensa valenza simbolica della questione, e, di immediata conseguenza, l’importanza di curare l’aspetto tecnico del colloquio come strumento.

Allo psicologo è evidente che il colloquio clinico è un atto tipico, anzi è l’atto tipico dello psicologo, dello psicanalista, dello psichiatra che fa diagnosi, è lo strumento per eccelenza, che funziona secondo coordinate  regole precise, definito, all’esterno, da un setting, da una teoria, da un obiettivo di indagine sui processi psichici, ovvero dal telos.

E’ vero però che il colloquio come strumento si dissolve, evapora quando manca la funzione, o per dirlo diversamente quando una sola di queste caratteristiche (il contesto, la funzione, lo strumento tecnico) viene a mancare, probabilmente la tipologia di colloquio si degrada e scivola verso i molti altri “colloqui” possibili in ambito personale e anche professionale.

Ma nel caso di incertezze, interferenze o invasioni di campo, ovvero ogni volta che la professione dello psicologo è messa in tensione da un problema, gli vengono in soccorso le tecniche apprese, i percorsi professionali accreditati e sedimentati nel tempo, che permettono di inserire i singoli atti di parola in una sintassi. Le famose regole di Semi, la regola del linguaggio, della frustrazione, della reciprocità costituiscono per molti di noi un riferimento al principio della professione; chi ha approfondito ha magari incontrato altre regole, ad esempio quelle sulla dialettica della domanda e risposta di Sergio Erba, e qualcuno avrà anche letto delle due porte del colloquio di Colette Soler, o perfino, non è da escludere che qualcuno si sia avventurato nei territori della semiotica di Greimas e Propp.

Solo queste tecniche in fondo garantiscono che il “nostro” colloquio sia ontologicamente diverso, che si apra a una dimensione di cura.

Il colloquio clinico non è pedagogico o educativo, non è filosofico, non è medico, è una diversa fattispecie di interazione umana.

Massimo Recalcati - Diagnosi differenziale, colloquio di cura e strutture soggettive

Con gli studenti universitari e delle Scuole di Psicoterapia è capitato spesso di chiederci se il percorso formativo affrontato abbia dedicato sufficiente spazio al tema del colloquio, o se la chiarezza di vedute su questo tema sia rimasta tale nel tempo.

Poche tecniche sono così vicine a un’arte, poche sono infatti così complesse e in fondo troppo poco coltivate. “Sai già parlare?” chiede il supervisore a Clarice Starling, la giovane criminologa de “Il Silenzio degli Innocenti” prima del suo primo colloquio con Hannibal Lecter. Una buona domanda. Gli sceneggiatori hanno colto nel segno, individuando, con sottile pragmatismo culturale, il punto centrale della competenza necessaria a svolgere quel lavoro: “sai già condurre un vero colloquio clinico?

Servirebbe aggiungere, per i più esperti, funziona dentro di te un profondo, intimo campanello di allarme, che ti segnala un eventuale possibile errore? Se la risposta è si, sei già a un ottimo livello. E quante volte lo senti suonare, quante volte un intervento clinico genera in te incertezza, inquietudine?

Il colloquio clinico avviene fra persone e in un contesto professionale specifico, spesso con un setting da rispettare, risponde a domande precise e ha un obiettivo diverso dal colloquio ordinario. Vi sarebbe ogni ragione di accertarsi che l’accademia abbia trasmesso l’uso del nostro principale strumento, dedicando poi a questa ars così professionalmente centrale un approfondimento formativo costante nel tempo.

Autore:
Dott. Mauro Grimoldi

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One thought on “Il colloquio clinico come atto tipico dello psicologo

  • “Chiunque riesca a gridare vocali da una finestra aperta può imparare a tenere un discorso” (Geoffrey Rush, non Colin Firth). Un discorso non è un colloquio ma se il “colloquio” è un discorso del clinico, facilmente diviene flatus vocis tossico. Sicchè non solo tecnica delle domande ma attitudine dell’ascolto e di un sostanziale con-loqui. Buon lavoro!

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