Come percepiamo il rischio

Puntualmente, nel momento in cui siamo afflitti da avvenimenti di portata globale come epidemie virali, attacchi terroristici, catastrofi naturali, ecc.. scoppia la fobia.
Ma siamo realmente consapevoli dei rischi reali? O ci fidiamo di quello che pensiamo e proviamo sul nostro corpo? Come percepiamo realmente il rischio?

La percezione del rischio è un processo cognitivo coinvolto in numerose attività quotidiane. Orienta le nostre scelte e influenza il nostro comportamento. Numerosi contributi in letteratura confermano che la percezione soggettiva del rischio non coincide con quella oggettiva.
Ciò porta a temere i rischi non pericolosi e, viceversa, a non avere paura di rischi che dovrebbero essere temuti. Questo perché nel processo percettivo del rischio entrano in gioco numerose dinamiche cognitive, emozionali che influenzano il processo della percezione soggettiva del rischio.

Partiamo dalla definizione del rischio: Il rischio oggettivo è definito come il rapporto tra la probabilità che un danno si verifichi e l’entità, ossia la gravità di quel danno. Un modo efficace per calcolare il rischio oggettivo è ricorrere alla casistica o la statistica inferenziale, insomma la ricerca di modelli accurati dal punto di vista predittivo per il calcolo del rischio.

La brutta notizia è che il rischio oggettivo non viene considerato quando le persone devono decidere come comportarsi.

L’esempio classico è la nostra preferenza nel viaggiare in auto o in aereo: razionalmente sappiamo tutti che volare è più sicuro che guidare, ma tutti abbiamo più paura di prendere un volo che di sederci al volante.
Ma realmente sappiamo dire qual è il reale rischio di viaggiare in aereo?

Questo è il rischio soggettivo: una valutazione fatta dalle persone riguardo il grado di rischiosità a determinati avvenimenti. E con molta probabilità non correla con quello oggettivo. Parliamo, dunque, di sovrastima o sottostima del rischio.

Per iniziare, gli individui possiedono due modi fondamentali con i quali comprendiamo il rischio: un sistema di tipo intuitivo ed un sistema di tipo analitico.
Possiamo ricondurre i processi analitici come una modalità di pensiero ‘lenta’, consapevoli e molto costosi  per le nostre energie cognitive mentre i processi intuitivi sono ‘veloci’, rapidi, inconsapevoli, economici ma al tempo stesso poco accurati nella valutazione del rischio. Eppure, è il sistema che utilizziamo quotidianamente e che ha permesso la sopravvivenza della specie.
Quest’ultimo processo cognitivo si basa su immagini e associazioni, collegate alle emozioni attraverso l’esperienza.

Chi ci dice che qualcosa sia buono o cattivo? La reazione affettiva attraverso l’esperienza, ossia il ricordo emotivo associato a quell’evento.

Dagli studi di Damasio (teoria del marcatore somatico) e da altre ricerche è nata la proposta di un’euristica utile nella determinazione del rischio a livello automatico e immediato: l’euristica affettiva.

Questa scorciatoia mentale consiste nel fare inferenze consultando l’emozione associata alle immagini che abbiamo nella memoria relativa al rischio che stiamo valutando e, sulla base di questa veloce consultazione, decidiamo se è pericoloso o no. Questa euristica è inversamente correlata alla percezione dei benefici inerenti quel rischio. Se un rischio è connotato positivamente allora saranno giudicati alti i benefici e bassi i rischi, se invece è connotato negativamente accadrà il contrario. Ciò accade perché modificando l’immagine affettiva generale che si ha dell’evento, si andrà a modificare il giudizio ad esso associato (Finucane et al, 2000).

Dall’altro lato, sono presenti altri meccanismi che, pur non essendo di natura affettiva, funzionano ugualmente in maniera automatica e veloce.

Vediamoli brevemente:

Euristica della disponibilità: Molto spesso accade di non poter avere accesso alle statistiche. Il più delle volte infatti, affidiamo le nostre inferenze al ricordo degli eventi.

Secondo tale euristica, un evento viene giudicato più frequente in base alla facilità con la quale è possibile rievocare alla mente esempi di quell’evento. Dietro questa euristica si nasconde un fondo di verità: gli eventi più frequenti sono anche quelli più facili da ricordare. Ma la disponibilità in memoria è influenzata da numerosi altri fattori non correlati con la frequenza. Prima tra tutti i mass media. E’ stato dimostrato che la copertura mediatica contribuisce a sovra stimare la probabilità di un evento maggiore di quanto non sia. Eventi di routine, meno sensazionali come malattie comuni o incidenti stradali potrebbero passare inosservati rispetto all’effettivo peso statistico.

Illusione di controllo: iI primo studio a testare questo bias (distorsioni cognitive) fu quello di Ellen Langer (1975) e venne definito come la tendenza a sovrastimare le probabilità di successo legate alla propria performance. Si tratta di una sovrastima della fiducia, o overconfidence: sottostimiamo il peso del caso mentre sovrastimiamo il peso dei fattori personali nel determinare l’esito di una situazione rischiosa. E più ci percepiamo esperti, più riteniamo di avere maggiore controllo dell’esito della situazione.

In conclusione, per comunicare efficacemente il rischio o eventuali situazioni di pericolo, anche in luce al periodo storico che stiamo vivendo, non basta utilizzare dati oggettivi o un approccio razionale. Come abbiamo visto la percezione del rischio è un fenomeno molto complesso che si modella in base al vissuto e alle credenze delle persone.

Bibliografia:

Bechara, A., Damasio, H., & Damasio, A. R. (2000). Emotion, decision making and the orbitofrontal cortex. Cerebral cortex10(3), 295-307.

Bonini, N., DEL MISSIER, F., & Rumiati, R. (2008). Psicologia del giudizio e della decisione. Il Mulino.

Finucane, M. L., Alhakami, A., Slovic, P., & Johnson, S. M. (2000). The affect heuristic in judgments of risks and benefits. Journal of behavioral decision making13(1), 1-17.

Langer, E. J., & Roth, J. (1975). Heads I win, tails it’s chance: The illusion of control as a function of the sequence of outcomes in a purely chance task. Journal of personality and social psychology32(6), 951.

 

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