George Floyd: guarire il trauma razziale nel corpo [Traumatic Retention]

George Floyd: guarire il trauma razziale nel corpo [Traumatic Retention]

Il 23 febbraio, a Satilla Shores un quartiere in Georgia, Ahmaud Arbery stava facendo jogging quando un uomo bianco gli ha sparato e l’ha ucciso. Sul momento, in pieno panico crescente della pandemia, pochi hanno dedicato attenzione alla notizia, 74 giorni dopo un video virale ha permesso che l’assassino venisse arrestato e accusato del crimine.

Il 25 maggio George Floyd, un uomo afroamericano viene ucciso a Minneapolis in seguito al brutale trattamento a cui è stato sottoposto da un agente di polizia, che nel tentativo di arrestarlo lo ha bloccato a terra premendogli il collo con un ginocchio.

Anche molto tempo dopo l’arrivo e la scomparsa della pandemia, la violenza razziale rimarrà una ferita aperta nella società americana, profondamente intrecciata con la storia, l’identità e la cultura collettiva.

Il termine “supremazia white-body ” serve a ricordare che il razzismo non è solo un’idea, è viscerale. “Mentre vediamo rabbia e violenza nelle strade, il vero campo di battaglia è dentro i nostri corpi, ed è li che questo conflitto dovrà essere risolto“, afferma in un intervista Resmaa Menakem, terapista esperto di trauma e scrittore di libri tra cui “My Grandmother’s Hands: Racialized Trauma and the Pathway to Mending Our Hearts and Bodies” (non tradotto in italiano)

Kristin Moe (KM) intervista Resmaa Menakem (RM) su Medium

KM: La parola “trauma” viene usata spesso in questi giorni. Come definisce il trauma come terapista somatico?

RM: Il trauma è una risposta a tutto ciò che è travolgente, che accade troppo velocemente, troppo presto o troppo a lungo – insieme alla mancanza di protezione o di sostegno. Vive nel corpo, immagazzinato come sensazione: dolore, o tensione – o mancanza di sensazione, come l’intorpidimento.

Dite che vi sta succedendo qualcosa di spaventoso, e che volete scappare, fuggire, ma non potete. Quel riflesso di volo viene annullato, ma non scompare, si annida nel corpo. Con il passare del tempo, la risposta traumatica inconscia e riflessiva può manifestarsi in ogni tipo di situazione, comprese le reazioni estreme alle cose, le paure irrazionali, le strategie di evitamento. Non c’è niente di sbagliato in questo – non è una sorta di fallimento personale. È il corpo che si protegge dal trauma che si ripeterà in futuro.

Succede così velocemente che non ha nulla a che fare con il nostro cervello razionale e pensante. Nella nostra cultura, crediamo che la logica abbia la meglio su tutto, ma la logica non può nemmeno mettersi le scarpe prima che il corpo inizi a proteggersi.

KM: Il campo dell’epigenetica sta iniziando a comprendere i meccanismi attraverso i quali i traumi si tramandano di generazione in generazione. Ce ne può parlarne?

RM: Beh, c’è un famoso esempio chiamato Cherry Blossom Experiment. Gli scienziati mettevano i topi maschi in una gabbia dove il pavimento era elettrificato, ogni tanto venivano date delle scosse. I topi saltavano in giro, strisciando l’uno sull’altro cercando di uscire da quella gabbia, comportandosi come se fossero in pericolo di vita. E ogni volta che gli scienziati mandavano le scosse, mandavano in circolo anche l’odore dei fiori di ciliegio.

L’hanno fatto per circa una settimana. I topi non riuscivano a calmarsi perché non sapevano quando stavano per prendere la scossa. Successivamente li hanno fatti accoppiare con topi femmina che non avevamo mai subito scosse elettriche, allontanandoli immediatamente dopo in modo che i topi maschi non avessero interazione con la loro progenie.

Dopo che i piccoli raggiunsero una certa età, gli scienziati cominciarono a mandare in circolo l’odore dei fiori di ciliegio – solo l’odore, senza corrente elettrica – i piccoli cominciarono a saltare in giro, cercando di uscire dalla gabbia, comportandosi come se la loro vita fosse in pericolo mortale.

La seconda generazione non aveva mai subito scosse elettriche, ma il trauma era stato tramandato attraverso l’espressione del DNA del padre. La paura di quell’odore di fiori di ciliegio era nei loro corpi. È questo che intendiamo quando parliamo di traumi ereditari. Non si tratta di un cambiamento nella struttura reale del DNA, ma di un cambiamento nel modo in cui quei geni si esprimono, lasciando che la progenie sappia cosa è e cosa non è pericoloso. È un meccanismo di sopravvivenza.

Nel tempo – nel corso delle generazioni – la fonte originaria del trauma può essere dimenticata o cancellata, ma i comportamenti si tramandano ancora da una generazione all’altra, attraverso il comportamento e attraverso il loro stesso DNA Ora, cosa succede quando un gruppo di persone subisce un trauma simile, anche le strategie che utilizza per farvi fronte saranno simili. Quando questo accade, inizia ad assomigliare molto alla cultura. Questo è ciò che viene detto Traumatic Retention.

Le persone di colore conoscono il trauma molto intimamente. La violenza contro i neri e i marroni fa parte dell’apparato strutturale di questa terra.

KM: Nel libro dici: “Non importa come siamo fatti, se sei nato e cresciuto in America, la supremazia del corpo bianco e i nostri adattamenti ad essa sono nel nostro sangue. I nostri stessi corpi ospitano la dissonanza non guarita e il trauma dei nostri antenati“.

RM: La supremazia bianca è nell’acqua, nell’aria, in tutto ciò che respiriamo, vediamo e pensiamo. È nella struttura della nostra società, dei media, della religione, dell’economia.

C’è un famoso studio che ha dimostrato che le esperienze negative dell’infanzia Adverse Childhood Experiences (ACE) – come l’abuso, o la negligenza, all’inizio della tua vita – influiscono sulla salute in età adulta e in qualche modo ne determinano il corso della vita. Noi lo sappiamo. Sappiamo che il razzismo è un fattore importante.

Cosa succede quando il trauma è stato così forte e accade molto prima del tuo arrivo sulla terra? E cosa accade a una madre mentre è incinta? Come si modella il suo trauma sui livelli di cortisolo nel corpo del bambino? I livelli di epinefrina, il cuore? Ci sono così tanti input storici prima ancora che il corpo del bambino inizi a formarsi.

KM: Come si manifesta la Traumatic Retention nella cultura bianca?

RM: Immaginate una scena con un bambino bianco di quattro anni in Georgia alla fine dell’Ottocento o all’inizio del Novecento. Papà entra in camera sua e dice: “Mettiti i vestiti, andiamo a vedere una cosa“. E poi vanno in un parco, e lì ci sono migliaia di persone. E poi il ragazzo si rende conto che tutte queste persone sono lì per un linciaggio.

E lui è lì in piedi, vede e sente, odora quell’orrore. Qualcosa nel suo corpo dice che questo è sbagliato – c’è tensione, costrizione. Ma ci sono migliaia di altri corpi bianchi a sancire questo linciaggio. Suo padre è lì, la polizia è lì, e tutti lo stanno autorizzando.

Tuttavia l’orrore e la costrizione nel suo corpo sono ancora lì. La parte di lui che vuole urlare o scappare sa che se lo fa potrebbe succedere qualcosa di brutto; ci potrebbero essere ripercussioni da parte di suo padre. Quindi deve respingere queste esperienze verso il basso.
Come fa il piccolo corpo del bambino bianco a dare un senso a tutto questo? Reprime quel disagio, quella tensione. E quando cresce anche tutta quell’energia repressa viene trasmessa.

KM: È diverso dal modo in cui la Traumatic Retention si manifesta nella cultura nera?

RM: Diciamo, per esempio, che un africano schiavizzato in una piantagione sta per essere frustato. Le frustate vengono viste da tutti anche i bambini. Pensate al sistema nervoso di un bambino che si rinforza contro ciò che sta per vedere. Pensate a quando quella frusta colpisce la schiena dell’uomo e il bambino guarda la pelle lacerata, senza poter fare niente per aiutare l’uomo. Poi cresce, e comincia a “battere” i suoi stessi figli.

Il “whupping”, come lo chiamiamo nella nostra comunità, è il risultato di una Traumatic Retention, un comportamento trattenuto che si è decontestualizzato. Spesso dico che le persone di colore non hanno un disturbo da stress post-traumatico. “Post” significa che il trauma è nel passato. Io dico che abbiamo un disturbo da stress traumatico persistente.

Ma cominciamo a non comportarci più come se quello che ci è successo, quello che continua ad accadere, fosse dovuto a qualche tipo di difetto della nostra gente. Stiamo iniziando a recuperare le conoscenze ancestrali su come funziona il mondo. Ma non risolveremo il problema del razzismo strutturale e della violenza razziale fin quando non cureremo i modi in cui il trauma razziale vive nel nostro corpo.

Mi chiedo: “Come possiamo iniziare a creare una comunità in questo momento, in modo che tra nove generazioni, i miei figli e i vostri figli non debbano avere a che fare con questo?”

Penso che si possa fare. Il trauma non è il destino. Ed è lì che si trova la speranza. Possiamo guarirci l’un l’altro. E quando guariamo il nostro trauma, fermiamo il ciclo. Possiamo scegliere di non trasmetterlo alla prossima generazione.

Traduzione libera di un intervista pubblicata
https://medium.com/

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