La Violenza nelle Relazioni Intime

Autore: Centro PRIMA
IlĀ Centro PRIMAĀ ĆØ uno spazio dedicato a chi vuole mettersi in discussioneĀ per capireĀ eĀ per cambiare, interrompendo il circolo vizioso che produce la violenza. Attivi dal 2014 con il nome diĀ ...
Violenza nelle Relazioni Intime

Possiamo osservare tutti come la violenza sia ovunque.

Eā€™ un dato talmente cogente che sembra banale anche solo ricordarlo. Emerge nella realtĆ  dei nostri giorni e nessun contesto ne ĆØ escluso: possiamo aspettarcela nel traffico, quando stiamo in fila alla posta, sui social senza dubbio. La violenza emerge nelle istituzioni ed ĆØ presente anche nelle nostre famiglie, in casa, il luogo che si immagina come il piĆ¹ sicuro.

Quello che sembra di riscontrare, oggi, ĆØ la caduta di alcuni di quei pilastri ā€“ culturalmente e storicamente acquisiti ā€“ che ci avevano illuso di aver trovato un equilibrio accettabile, mettendoci al sicuro proprio dal riemergere di quelle emozioni intrattabili che hanno reso evidenti ā€“ in altri tempi e ciclicamente ā€“ i costi della nostra azione.

Basti pensare ā€“ tra gli altri esempi ā€“ alla nascita dei populismi, al ritorno dei nazionalismi, al riemergere delle destre estreme contro ā€œnemiciā€ reali e/o immaginari come uniche soluzioni possibili per far fronte alla complessitĆ  con la quale ognuno di noi si confronta quotidianamente. CosƬ come possiamo pensare alla violenza di genere, che cresce esponenzialmente anno dopo anno, tema intorno al quale oggi andremo a confrontarci (V. Fini, A. Fedeli, 2017).

La questione della violenza in senso piĆ¹ ampio, ĆØ stata cosƬ tanto dibattuta oggi raggiungiamo tra le ventimila e le trentamila voci bibliografiche che comprendono ricerche in varie discipline. Filosofi, biologi, etologi, neurologi, la psicologia, la psicoanalisi da molti anni si interrogano sul perchĆ© della crudeltĆ  umana.

Se ci pensiamo lā€™uomo in natura ĆØ lā€™unico essere vivente capace di essere crudele. Quello che ci distingue dagli altri esseri viventi non ĆØ tanto, o non solo, la capacitĆ  di aggredire, quanto quella di portare, ad esempio, rancore; il pensiero che il nostro dolore sia voluto da qualcun altro, ĆØ un vissuto che troviamo nel pensiero dei bambini tanto in quello degli adulti (S. Mitchell, 2003).

Nella nostra cultura ci sono due approcci di base al problema dellā€™odio, della violenza, dellā€™aggressivitĆ .

  • Uno basato sullā€™idea che le persone siano violente per natura, perchĆØ la predazione ĆØ lā€™obiettivo principale. Ci sono differenti discipline che hanno portato avanti questa posizione, ad esempio Hobbes nella filosofia e Lorenz nellā€™ambito dei suoi studi di etologia; questā€™ultimo sottolinea come lā€™aggressivitĆ  sia un bisogno, esattamente come la fame e la sessualitĆ , adattivo e primario.
  • La seconda posizione, portata avanti in filosofia ad esempio da Rousseau, ĆØ che gli esseri umani siano esseri ā€œsocialiā€ per natura e che, per tale ragione la violenza e lā€™aggressivitĆ  siano il frutto del processo di ā€œcivilizzazioneā€ che a partire dallā€™istituzione della ā€œproprietĆ  privataā€ ha condotto alla sopraffazione e alla violenza dellā€™uomo sullā€™uomo.

Freud ad esempio allā€™inizio delle proprie riflessioni, si posizionĆ² su questa seconda posizione ma successivamente, ad esempio, in Al di lĆ  del principio del piacere (1920)Ā si orientĆ² maggiormente sulla prima, ritenendo lā€™aggressivitĆ  opera di una pulsione di morte iscritta nel patrimonio ā€œprimarioā€ dellā€™essere umano.

Solo successivamente, alcuni autori appartenenti a scuole nate dopo la morte di Freud, come Sullivan e Kohut, hanno iniziato a riflettere e verificare al contrario che le persone sono orientate a cercare lā€™intimitĆ  personale, lā€™attaccamento e divengono aggressivi solo se questi bisogni vengono frustrati.

Potrebbe sembrare che solo gli studiosi riflettano sulle posizioni sopra descritte ed invece, seppur il piĆ¹ delle volte implicitamente, tutti si interrogano su queste due ipotesi interpretative.

Precedentemente abbiamo parlato di cosa ci distingue dagli altri esseri viventi, unā€™altra differenza ĆØ che investiamo di significato ogni esperienza che facciamo, e il modo in cui interpretiamo queste esperienze ha un effetto su come reagiamo a ciĆ² che ci accade.

Uno dei problemi piĆ¹ complicati nellā€™approcciare al tema riguarda la confusione che facciamo quando parliamo di aggressivitĆ , termine spesso associato a contenuti ed esperienze negative come lā€™ingiustizia, la paura, la colpa, la violenza stessa. Sappiano, come dicevamo prima, che lā€™aggressivitĆ  si presenta come una funzione importante, se non indispensabile per la sopravvivenza delle specie, regola la relazione tra i suoi membri e favorisce lā€™adattamento allā€™ambiente (F. Baldoni 2015).

Il termine aggressivitĆ  deriva dal latino aggredior (ad-gredior). Il verbo gredior significa sia ā€œattaccareā€ ma anche ā€œandareā€, ā€œavanzareā€. La preposizione ad indica ā€œcontroā€ ma anche ā€œversoā€, ā€œallo scopo diā€. Quindi si tratta di una parola dal significato complesso e molteplice: non vuol dire solamente ā€œaggredireā€ ma anche ā€œandare versoā€, ā€œintraprendereā€, ā€œcercare di ottenereā€.

Al contrario il termine violenza deriva da ā€œvisā€, forza, e richiama allā€™uso di essa ed ĆØ possibile associarla ad una concezione piĆ¹ ā€œnegativaā€ che non quella di semplice aggressivitĆ . Ed in effetti lā€™interpretazione che ne viene data fa sempre riferimento ad una forma di comportamento sociale, a sua volta dipendente dal contesto piĆ¹ ampio in cui si manifesta.

Tornando alle due posizioni descritte Stephen Mitchell riteneva che lā€™aggressivitĆ  espressa dalla prima posizione, potesse essere lā€™espressione inevitabile di un desiderio di potere e di dominio che su un piano personale si traduce con la diffidenza e la paura dellā€™intimitĆ . Il fallimento di una relazione potrebbe essere il motivo per mostrare la propria vera natura. Vista dalla seconda posizione lā€™aggressivitĆ  invece ĆØ una risposta ad esperienze di frustrazione e deprivazione e su un piano personale le relazioni potrebbero rompersi quando non abbiamo amato o non siamo stati amati abbastanza (S. Mitchell, 2003).

Come vedete ci potrebbe capitare di oscillare tra le due posizioni, spostandoci dallā€™una allā€™altra a seconda delle esperienze che stiamo vivendo perchĆ© di fatto nessuna delle due ĆØ soddisfacente appieno. Probabilmente questo accade perchĆ© sempre di piĆ¹ facciamoĀ esperienza della complessitĆ  in cui siamo immersi. Sempre piĆ¹ stiamo sperimentando il passaggio dalla cultura dellā€™aut-aut a quella dellā€™et-et.

Allora oggi essere una persona appare unā€™impresa molto piĆ¹ complicata e anche coinvolgente di qualche tempo fa e su piĆ¹ piani. ƈ esperienza comune, quotidiana, quella che ci fa sembrare di negoziare costantemente i significati di quello che ci succede con gli altri: dal lavoro alla famiglia, dalla scuola ai contesti di libera aggregazione. Dal pubblico al privato.

Nonostante questo siamo convinti, a livello sicuramente implicito ma a volte anche esplicito, che possiamo e in fondo anche dobbiamo esercitare il controllo su noi e sugli altri per ciĆ² che riguarda le emozioni, i sentimenti e le azioni che compiamo.

Essere allora convinti che si possa avere questo tipo di controllo rappresenta uno dei prodromi dellā€™azione violenta che di fatto ĆØ unā€™operazione di riduzione della complessitĆ , il tentativo reazionario di un ritorno al o-o, o questo, o quello.

Questo tipo di esperienza soggettiva si esprime dentro le relazioni e le degrada, perchƩ deve poterle piegare, e qui faccio riferimento anche al titolo scelto per il seminario, al servizio di questo illusorio senso di sicurezza e controllo.

 

Nellā€™affrontare la violenza e nello specifico la violenza di genere emergono una serie di questioni che si sovrappongono e si intersecano e che danno la dimensione di quanto sia complesso approcciarsi al tema.

 

La violenza di genere ĆØ una forma specifica di violenza che ha delle caratteristiche specifiche che affondano nella cultura, e ha delle conseguenze sia su un piano sociale e giuridico, nonchĆ© anche su un piano specificamente clinico.

La violenza contro le donne ĆØ un fenomeno da sempre presente nella nostra cultura come in tantissime realtĆ  in tutto il mondo. ƈ presente anche nella mitologia di ogni paese e cultura e molte pratiche, anche di popoli antichi, raccontano di violenze perpetrate dallā€™uomo sulla donna.

Uno che mi viene in mente mentre rifletto su questi argomenti ĆØ il ā€œratto delle Sabineā€ o altre vicende drammatiche ed orribili come le pratiche di stupro sistematico delle donne in occasione di conquiste militari e razzie. Non possiamo negare storicamente la millenaria condizione di sottomissione e subalternitĆ  della donna nei confronti dellā€™uomo emergente anche nei codici di legge di tutto il mondo fino ai giorni nostri.

Il fenomeno della violenza sulle donne ĆØ espressione di una specifica cultura, originaria, trasversale e multiforme: la cultura patriarcale, una cultura ancora da comprendere appieno e che solo unā€™analisi superficiale potrebbe farci pensare come parte di un passato oramai alle spalle.

La violenza che questa cultura esprime ĆØ quella del potere che vorrei definire senza competenza, cioĆØ il potere basato sul genere o sul ruolo; il potere dellā€™uno sullā€™altro, un potere non-pensato, e non costruito e non negoziato dentro le relazioni e per la collettivitĆ .

La violenza sulle donne ĆØ quindi un caso particolare e specifico di una forma piĆ¹ articolata di violenza, quella del potere distruttivo, o meglio del potere che non avendo la competenza di costruire diviene possesso dellā€™altro. Possiamo considerare il razzismo, lo schiavismo, lo sfruttamento del lavoro e dellā€™ambiente, come forme diverse della stessa matrice culturale (A. Bernetti, comunicazione personale).

Questo tipo di cultura ci sembra ponga grandi problemi e conseguenze che non sono infatti solo valoriali o astratte ma sono capaci di irrompere nella vita di ogni persona, in ogni relazione, permeando le esperienze concrete.

Ɖ innegabile ormai che il rapporto tra individuo e cultura sia da considerarsi inestricabile, non esiste infatti un individuo fuori da un contesto culturale e non esiste una cultura senza individui, per cui quello che ne deriva su un piano clinico ĆØ la necessita di lavorare sempre con delle relazioni, costituite da soggetti immersi nelle proprie culture di appartenenza.

 

La lettura psicologica del problema della violenza non puĆ² piĆ¹ basarsi quindi su modelli individualistici, ma su approcci che vedono in primo luogo come oggetto del proprio intervento le relazioni.

 

CosƬ mentre siamo entitĆ  psicobiologiche, con tutto quello che questo comporta sia su un piano di bisogni fisici, pattern di comportamento, genetica, biochimica e di funzionamento psicologico, cosa facciamo o non facciamo ĆØ anche intrinsecamente collegato a come percepiamo noi stessi e il mondo intorno a noi (F.D. Zulueta, 1999).

Non sarĆ  sufficiente allora una lettura del fenomeno in termini di comportamenti e di caratteristiche psicopatologiche individuali da correggere; sarĆ  necessario piuttosto lasciare spazio a una lettura che vede persone che vivono ed esprimono nelle loro relazioni la cultura in cui sono inseriti, che sperimentano, talvolta in maniera drammatica, dei problemi e in qualche modo sentono una domanda di cambiamento che puĆ² e deve essere colta.

Lindemann (1944) diede una interessante definizione di trauma come ā€œunā€™improvvisa interruzione della relazione umanaā€ e di fatto la distruttivitĆ  umana non ĆØ possibile comprenderla se non attraverso il riconoscimento dellā€™importanza che essa ha nei nostri contesti di vita e nei rapporti con gli altri.

Occuparsi della violenza in questi tempi, significa provare allora a fornire opportunitĆ  alle nuove generazioni, non solo limitare i danni. Questa domanda di cambiamento ĆØĀ unā€™occasione che la societĆ  deve sostenere, diffondere e poi accogliere con competenza. Trattare queste domande significa offrire una possibilitĆ  di sviluppo per le persone e per le relazioni che vivono, e significa incidere profondamente nella societĆ  e nella cultura.

 

Nel definire un comportamento violento diamo significato ad una forma di comportamento interpersonale.

 

Una persona che ha subito violenza o lā€™ha agita ĆØ cresciuta e vive dentro una cultura specifica, ĆØ dentro un contesto relazionale specifico, ha un proprio e soggettivo modo di significarsi dentro le relazioni, crea e gestisce le conseguenze di quanto vive su un piano sociale, concreto, reale.

Per concludere, vorrei citare di nuovo Mitchell per dire che chi lavora con la violenza di genere sarĆ  necessariamente portato a mettere in gioco la ā€œselva delle problematiche e delle dialettiche relative allea fantasie e alla realtĆ , allā€™essere sĆ© stessi e allā€™essere diversi, ai corpi e alle emozioni, allā€™amore e allā€™odio, a ciĆ² che ĆØ sotto il nostro controllo e a ciĆ² che non puĆ² esserlo, alla sofferenza e al senso di colpa, alla sicurezza e al rischioā€

Autrice:Ā Dottoressa Alessia Fedeli, Psicologa, Psicoterapeuta Centro Prima
Contributo portato come introduzione ai lavori del seminario organizzato dalla SIPRe – SocietĆ  Italiana di Psicoanalisi della Relazione – 8 Ottobre 2022

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