Il titolo è volutamente provocatorio, ma vuole sottolineare un aspetto importante: l’assistenza agli anziani è, in molte situazioni, eccessiva da una parte e carente dall’altra.
Carl, 78 anni, scorbutico e burbero vedovo che vive nella propria ordinata casetta, con i suoi ritmi e le sue routine, si trova davanti Russell, scout di 70 anni più giovane, che vuole a tutti i costi aiutarlo a fare qualcosa – qualsiasi cosa – pur di ottenere la medaglia di assistenza agli anziani. Carl non ha bisogno di essere aiutato ad attraversare la strada: nonostante gli acciacchi è ancora in forma. Però , come si vedrà meglio nel resto del film, Carl è solo, ed è questa solitudine il fattore scatenante dell’evoluzione della trama e del proseguire della storia.
La presenza di Russell è collaterale; il bambino ha però una funzione fondamentale, perché senza di lui il senso di solitudine resterebbe irrisolto. Le pressioni del piccolo scout – che vuole solo guadagnare la sua medaglia – finiscono con l’esasperare Carl, che lo inganna per liberarsene. Questo eccesso di zelo può spesso essere riscontrabile nelle famiglie che abbiano almeno un membro anziano: si diventa solleciti, ci si sostituisce nei compiti più semplici, si aumenta la spinta assistenziale, con l’intento di rendere la vita del famigliare – e la propria – meno complicata.
Ci si sente in un certo senso eroici, indispensabili, negando di fatto l’indipendenza e l’autonomia alla persona anziana. E quando questa negazione è costante, la pressione sul benessere di tutti i componenti della famiglia diventa insostenibile. Lo stesso può avvenire con i caregiver non famigliari, a casa e nelle strutture assistenziali: l’anziano è lento a fare le cose, è più debole, rischia di farsi male, e così vengono impedite sempre più mansioni, vengono preclusi sempre più compiti, viene negata sempre più libertà di gestione.
La cultura odierna spinge verso la performance, la produttività, l’ottimizzazione, e in questa cornice la persona anziana, pensionata, non più attiva o non sufficientemente attiva, si trova schiacciata tra il senso di inutilità e la frustrazione di non potersi gestire in autonomia. Soprattutto nei casi in cui sia presente un decadimento cognitivo, si riscontra una tendenza alla riduzione delle attività proposte, un impoverimento degli output esterni, una preferenza verso la standardizzazione delle modalità di accudimento e intrattenimento.
L’anziano viene considerato sempre più simile a un involucro senza volontà e senza potere decisionale. Come ricorda Cesa Bianchi, l’invecchiamento generale della popolazione a cui stiamo assistendo deve spingere le istituzioni, le organizzazioni, la comunità tutta a riscrivere le modalità di supporto agli anziani e a potenziare i servizi a disposizione, rendendoli più efficienti e adeguati alla situazione attuale. Uno dei classici stereotipi legati alla figura anziana riguarda l’incompetenza rispetto alle innovazioni tecnologiche; se da una parte possono esserci una resistenza e un rifiuto a imparare a utilizzarle, dall’altra le nuove generazioni evitano l’incontro con i più anziani, si esasperano alla prima difficoltà nella comprensione di un passaggio, e finiscono con l’irritarsi e con il portare a termine il lavoro sostituendosi e non più insegnando.
La trasmissione della conoscenza viene sempre immaginata dal più vecchio al più giovane, mai al contrario; eppure le possibilità di crescita intergenerazionale sono molte di più e molto più ricche. Questa crescita andrebbe pensata come uno scambio culturale, per – ad esempio – migliorare le prestazioni tecnologiche e accrescere le competenze informatiche in chi ne mostrasse interesse, o per aumentare l’autonomia nella gestione di alcuni aspetti della quotidianità.
Spesso le famiglie, nelle figure dei figli e dei nipoti, si occupano dell’anziano rendendolo di fatto dipendente da prassi concordate senza la sua partecipazione, per motivi organizzativi, economici, strutturali: basti pensare a quelle persone che sono state accompagnate dai parenti in una struttura residenziale senza sapere che vi sarebbero rimaste permanentemente, o a chi viene sballottato da una casa all’altra a seconda delle necessità dei membri della famiglia. Il valore della persona anziana è definito in negativo, passivamente: tiene i nipoti, quando ci sono, e poco più.
Anche quando è in salute e capace, l’anziano può vedersi privato della sua autodeterminazione; si sente così frustrato, bloccato, vede le sue competenze residue svalorizzate e calpestate. Ridare – o dare – la dignità e l’autonomia a persone che si sono trovate a rinunciarvi, anche parzialmente, dovrebbe essere il mandato primario di chi si occupa della loro salute, sia il MMG, lo psichiatra, il neurologo, lo psicologo e qualsiasi altra figura entri in contatto con loro: riconoscere le abilità, i desideri, i bisogni dell’anziano, senza trascurare l’area emotiva e senza basare l’intervento su una valutazione strettamente cognitiva e fisiologica.
È importante avere sempre in mente l’unicità della persona e il valore di ciò che possiede, materialmente o funzionalmente, conoscerla nel suo contesto di vita e non trascurare la sua storia. Nell’anziano questi aspetti sono certamente arricchiti dall’esperienza maturata e non devono essere annichiliti da frettolosità o disinteresse. Bisognerebbe essere meno il piccolo e zelante Russell, che vuole la sua medaglia e non sa nemmeno chi ha davanti, e imparare di più a prestare attenzione ai bisogni reali e alle modalità relazionali della persona anziana; questo vale per i sanitari ma ancora di più, spesso, per le famiglie.
È quindi fondamentale non trascurare mai i caregiver, siano essi coniugi, figli, altri famigliari o personale di assistenza: una formazione adeguata è auspicabile anche per loro, affinché riconoscano nell’invecchiamento non solo ostacoli e difficoltà, ma anche momenti di bellezza e di soddisfazione.
GLOSSARIO
Invecchiamento: processo biologico universale e multifattoriale, per cui l’organismo attraversa una progressiva maturazione fino al decadimento e alla morte. Nell’uomo, in particolare, all’invecchiamento viene fatta corrispondere una perdita della funzionalità degli organi, una riduzione dell’efficienza cerebrale e una maggiore frequenza delle patologie invalidanti. Progressi scientifici e miglioramento delle condizioni di vita hanno determinato un aumento della longevità soprattutto nei paesi occidentali (OMS).
Caregiver: persona che si occupa di un’altra; può essere un famigliare o qualcuno di esterno alla famiglia a cui sia stata assegnato questo ruolo. La mansione principale è quella di dare cura, assistenza, supporto a chi, per motivi sanitari, ha necessità di una figura di sostegno. Il compito del caregiver porta con sé tutta una serie di effetti psicologici e sociali: stress, perdita di motivazione, senso di disorganizzazione, presenza di conflitti famigliari, riduzione delle attività di interesse personale. Insieme a questi effetti negativi si ritrova però anche la potenzialità di aspetti positivi, quali l’arricchimento dei rapporti, il miglioramento dell’autostima e un maggior senso di competenza. Per garantire un percorso di caregiving ottimale per chi dà cura e chi la riceve è necessario trovare un equilibrio tra quelle che sono le sfide quotidiane, le risorse a disposizione e il supporto sociale.
Decadimento cognitivo: riduzione delle capacità cognitive che può presentarsi con il fisiologico invecchiamento e con l’evidenziarsi di patologie cerebrali quale la demenza, nelle sue diverse forme. Consiste in una graduale perdita delle funzionalità nelle diverse aree cognitive (attenzione, memoria, funzioni esecutive, linguaggio e comunicazione, percezione, movimento). Vi sono diverse tecniche neuropsicologiche di stimolazione volte a contrastarne e limitarne l’avanzamento.
One thought on “Anziani. È davvero necessaria tutta questa assistenza?”
Savina says:
Interessante i ed esplicativo l’idea del richiamo ad un cartone animato attuale!