Dipendenza affettiva: il volto passivo della Violenza

Psicologa Clinica e Psicoterapeuta Gruppoanalista. Socia fondatrice del Centro Prima – già CAM Roma – di cui è Responsabile dell'Area Comunicazione. Presso il Centro Prima si occupa dell'acco...
Dipendenza affettiva: il volto passivo della Violenza

Sentirsi legati a qualcuno è ciò che caratterizza ogni rapporto d’amore, per questo non è semplice addentrarsi nel discorso di cosa significhi effettivamente dipendere dal proprio partner. Eppure in termini psicologici avere un problema di dipendenza affettiva si configura come qualcosa di molto preciso.

Ci proponiamo l’intento di raccontarlo in questo contributo perché la dipendenza affettiva è la condizione principale che prefigura il rischio di agire violenza. Una condizione psichica che non è caratteristica individuale, ma è propria della dinamica relazionale della coppia.

Diremo anche da dove nasca la tendenza a dipendere e su cosa si possa far leva per favorire un modo alternativo e più costruttivo di stare nel rapporto. A partire dall’esperienza accumulata nel nostro lavoro, proveremo anche a raccontare come si caratterizza un rapporto libero dalla dipendenza.

 

Indizi per riconoscere un rapporto contraddistinto dal problema della dipendenza

Proponiamo che esistano due motivazioni su cui può fondarsi una relazione:

  1. andare insieme verso qualcosa, quindi condividere un progetto che si desidera realizzare insieme;
  2. tentare di colmare e/o coprire mancanze personali, facendosi scudo dell’altra persona che così diventa una stampella alla propria identità

Sosteniamo anche che questi due modi coesistano, quindi che il rapporto di coppia sia sempre organizzato da un lato dalla possibilità di desiderare, progettare, muoversi insieme, dall’altro lato come luogo per dare risposta e rassicurazione a bisogni e mancanze personali.

Proponiamo di pensare che sia lo sbilanciamento tra queste due modalità di rapportarsi a fare la differenza in termini di qualità dell’incontro, più precisamente che la dipendenza affettiva si configuri laddove il modo prevalente di relazionarsi abbia una finalità riempitiva più che progettuale.

 

Naturalmente stiamo descrivendo una dinamica che non è consapevole, che agisce sottotraccia, almeno fino a quando non viene offerta la possibilità di rifletterci entro il contesto (riabilitativo) terapeutico.

Ma, prima di trovare uno spazio protetto in cui ragionare sulle cause e sulle implicazioni della propria dipendenza affettiva, essa può manifestarsi come vera e propria scoperta traumatica, capace di innescare la violenza. Vediamo come.

Quando la persona dipendente si trova confrontata con la necessità del cambiamento – situazione che genera instabilità e paura – tenderà a rispondere con un irrigidimento su posizioni di controllo e quindi di violenza. Ciò accade in quanto contattare le proprie fragilità terrorizza chi ha un’identità fragile: accade allora che la soluzione escogitata – sempre fallimentare – sia quella di provare a riconquistare la posizione di comando e di potere che si percepisce perduta.

Persone e relazioni cambiano fisiologicamente sotto i colpi del tempo e delle esperienze, come le onde, la pioggia e il vento trasformano un’alta scogliera in sabbia fine.

Un rapporto in salute è capace di adattarsi alle novità che si attraversano nel corsodella vita, favorendo e accompagnando l’esperienza di crescita, fatta anche di frustrazioni.

 

Al contrario, una relazione diventa perversa quando viene utilizzata per tenere tutto fermo, come sotto una campana di vetro il cui intento (irrealizzabile) sarebbe quello di bloccare il tempo e la vita stessa.

 

Per quanto la relazione d’amore possa essere immaginata anche come un riparo dove potersi sentire al sicuro, talvolta questa sua caratteristica viene esasperata al punto da trasformare il legame in legaccio, in una caverna tanto buia da produrre allucinazioni analoghe a quelle che descrive Platone nel suo celebre mito.

E’ così che le relazioni possono trasformarsi da risorsa e opportunità in vera e propria prigione.

Origine della tendenza a dipendere

Partiamo da due presupposti:

  1. più si ha fiducia in se stessi più si è capaci di fare i conti con i propri limiti, che saranno tollerabili proprio grazie alle risorse su cui si sente di poter contare;
  2. b) più le esperienze primarie sono state frustranti più la ferita prodotta è profonda, nascosta, difficile da contattare e la fiducia in se stessi

E’ proprio questa ferita, esito di storie più o meno comuni, a produrre identità fragili: genitori assenti o abusanti, figure di riferimento svalutanti o incapaci di valorizzare le risorse, opportunità negate, modelli di riferimento troppo elevati, perdite precoci, rapporti di cura capovolti con gli adulti di riferimento e molto altro.

Chi ha un’identità fragile e ferita tende ad utilizzare il rapporto di coppia per dissimulare i limiti e il senso di inadeguatezza che sente nello stare al mondo: si perverte in tal senso la funzione per cui la relazione nasce, ovvero quella di realizzare insieme delle cose.

 

Per utilizzare un’immagine semplice, pensiamo a chi vive relazioni connotate nel senso della dipendenza come a qualcuno che utilizza il partner come fosse un cerotto su una ferita che però richiederebbe dei punti di sutura.

Si dimentica che il “cerotto-partner” non ha capacità curative, che la protezione della ferita è solo temporanea, che il cerotto si staccherà e sarà inevitabile occuparsi di curare il taglio. Senza considerare che, nel frattempo, si possono anche contrarre gravi infezioni e veder peggiorare la prognosi.

Chi utilizza le relazioni come paraventi ha paura di un cambiamento, che si traduce nella sensazione di perdere il controllo e nella percezione del rischio di vedere esposta la propria ferita.

Per questo le fasi di transizione di cui è costellata la vita (nascite, lutti, traslochi, cambio di lavoro, separazioni, matrimoni, invecchiamento, ecc) sono momenti in cui il rischio di agire violenza aumenta sensibilmente: quando il proprio valore dipende dal fatto che sia un altro a tutelarlo, riconoscerlo, garantirlo il cambiamento – che prefigura la possibilità di perdere alcune certezze acquisite – appare inaccettabile e da evitare ad ogni costo.

Chi è molto insicuro vive addirittura ogni occasione in cui il partner propone punti di vista personali come una vera e propria provocazione. Il lavoro del Centro Prima consiste nell’offrire uno spazio di ascolto e confronto dedicato a rendere questa complessa dinamica più consapevole e dunque modificabile.

 

Trovare un tempo e uno spazio per ascoltarsi

Lavorando con gli autori di comportamenti violenti sperimentiamo la fatica di portarli a ragionare su di sé, sul ruolo che giocano nella coppia, sulle responsabilità di cui è necessario che si facciano carico. D

urante i colloqui con la nostra utenza osserviamo un atteggiamento piuttosto generalizzato che descriviamo come “inciampare nella mente dell’altro“: con questa espressione intendiamo rimarcare una tendenza problematica a presumere di conoscere i pensieri delle partner, da cui deriva ancora una certa inclinazione ad avanzare interpretazioni sui loro comportamenti e sulle loro scelte.

Questo atteggiamento è anche un modo per nascondersi a se stessi, sottraendosi alle emozioni spiacevoli che si sperimentano, evitando di concentrarsi sulle proprie azioni e sui propri vissuti.

 

Riflettere su se stessi, per esempio interrogandosi sul senso della propria ostinazione, appare infatti estremamente complicato: come tirati indietro da un elastico, quando gli uomini che abbiamo in carico toccano una parte nuova e perturbante di sé, capita di frequente che si “rifugino” nella mente dell’altro.

 

Facciamo notare che puntare l’attenzione su quel che fa o dice la partner non rappresenta soltanto un banale tentativo di scaricare il barile, piuttosto evidenzia un modo particolare di rappresentare la realtà, dove le proprie azioni non sono pensabili come esito di una scelta autonoma (in senso letterale, capacità di autogoverno, di darsi delle leggi proprie), ma sono viste esclusivamente come risposta a qualcuno.

Stiamo parlando di una vera e propria posizione esistenziale, quella di rappresentarsi prevalentemente in funzione di un’altra persona, in questo senso dipendere da quella persona, faticando molto ad immaginarsi come individui.

Nello spazio terapeutico questo atteggiamento può essere osservato e pian piano pensato, sollecitando e supportando l’importanza di mettere al centro del discorso i propri vissuti.

La reciprocità è un aspetto utile da usare come indizio di una buona relazione e come direzione/obiettivo verso cui nei nostri spazi proponiamo uno sviluppo perché sottolinea quanto essere persona significhi anche essere riconosciuto come soggetto da un’altra persona (Mitchell, 2000).

Infatti, in ognuno di noi coesiste da un lato la spinta all’autoaffermazione e dall’altro il bisogno di dipendere da qualcuno che possa garantirci il riconoscimento di cui abbiamo bisogno: un riconoscimento che però non è controllo dell’altro, bensì il sentire di non bastarsi.

Richiamiamo il concetto di reciprocità per giungere quindi ad affermare che non è affatto l’indipendenza ciò che si auspica come alternativa alla dipendenza.

 

Vale la pena soffermarsi sull’etimologia del termine “reciproco” che deriva dal latino reciprŏcus, composto da *recus, (der. di re-,) ‘indietro’ e *procus, (der. di pro-) ‘avanti’. Rimanda a ciò “che va avanti e indietro”, alla possibilità del movimento, al processo, alla rinuncia a fissare gli eventi, le azioni, i pensieri, le scelte una volta e per sempre.

Valorizzare la reciprocità significa ragionare in termini relazionali, oltre che individuali. Questa considerazione apre ad un modo del tutto inedito di pensare i problemi dei nostri utenti: infatti, riteniamo sia fondamentale fare riferimento non solo ai loro profili individuali, ma anche alla dinamica relazionale che vivono.

In questo senso diciamo che le cose accadono TRA le persone, non solo dentro le persone. In generale, la tensione tra dipendenza e autonomia – letteralmente, darsi delle leggi proprie – viene connotata dal senso comune entro la logica individuale e in rapporto con il genere, dove peraltro donna ha il significato di essere “oggetto dipendente” e uomo “soggetto autonomo”.

Facciamo i conti, del resto, con la cultura occidentale che ha sempre associato la dipendenza a debolezza, incapacità, labilità emotiva, passività, guadagno secondario e dunque, aggiungiamo noi, inevitabilmente, al genere femminile. “Dottoressa è possibile estirpare queste emozioni che mi fanno sentire debole e in sostanza una femminuccia?” chiede un paziente, che sente ed esprime insieme desiderio e paura di voler costruire un rapporto autentico con qualcuno.

Nelle relazioni si cade, ci si sporca, si fraintende, si chiede senza volere davvero, si riceve senza magari aver chiesto, solo questo possiamo rispondere: è soltanto in questa reciprocità contingente che possiamo accrescere il nostro saper essere al mondo.

Ci piace ricordare le parole di Jessica Benjamin “Le esperienze di essere insieme sono fondate su una crescente coscienza di differenza, su un senso di intimità vissuto come qualcosa che avviene “tra noi due”. È precisamente perché “io e l’altro non sono uno” che le esperienze di fusione hanno un così intenso impatto emotivo. Il fatto che l’altro sia all’esterno ci fa sentire che si è nutriti davvero, nutriti da fuori, invece di dover provvedere da sé a ogni cosa” (Benjamin, 2019).

 

Concludiamo dicendo che le relazioni con uno spiccato tratto di dipendenza si configurano massivamente come relazioni d’uso, dove il partner viene impiegato come un manichino su cui incollare le proprie paure e attraverso cui dare vita ai propri fantasmi.

 

Possiamo allora dire che la violenza si configura come tentativo (sempre vano) di cancellare con un colpo di spugna la perturbante scoperta della propria imperfezione e insicurezza. Dipendere da qualcuno significa sentirsi perduti per sempre in sua assenza, avere l’impressione di perdere con quella persona anche il senso della propria esistenza.

L’assenza del partner perde quindi la sua connotazione neutra e assume le sembianze di una presenza persecutoria, diventa cioè un’assenza finalizzata a ferire, a danneggiare, a infliggere dolore: è questo il meccanismo che può far sentire le persone vittime e quindi legittimate a colpire.

Trasformare l’assenza in cattiva presenza è un meccanismo psichico caratteristico del bambino molto piccolo, il quale non ha ancora interiorizzato la costanza dell’oggetto d’amore, ossia non ha ancora imparato che   all’assenza   seguirà   sempre   una nuova presenza nutriente.

Chi non è capace di tollerare l’assenza dell’altro (o un suo cambiamento) ha un funzionamento psichico primitivo, dipendente, autocentrato, in una parola narcisistico: l’oggetto d’amore deve essere allora posseduto, preteso, controllato, obbligato perché in sua assenza ci si sente perduti.

L’alternativa a questa logica violenta del possesso dell’altro – che, lo ricordiamo, è tesa a negare i propri limiti – è darsi l’occasione di fare la conoscenza della complessità di cui siamo fatti, di ricontattare e curare la ferita nascosta.

Solo attraversando il proprio dolore sarà possibile immaginare un partner amichevolmente estraneo, radicalmente altro, in questo senso libero. Per dirla come Barthes, “là dove ti mostri fragile, individui il tuo plurale”.

 

 

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One thought on “Dipendenza affettiva: il volto passivo della Violenza

  • ascolillocarmela says:

    Molto interessante l’articolo; un osservare più integrato il tema della dipendenza e delle difese. Grazie

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