I due niente dell’anoressia: fame d’amore e appetito di morte

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I due niente dell’anoressia: fame d’amore e appetito di morte

In occasione del nostro ultimo incontro, abbiamo riflettuto sul vuoto e sul pieno nei disturbi del comportamento alimentare. Cercheremo adesso di isolare “le due anime dell’anoressia[1], così da offrire un primo orientamento in quello che è il dedalo dei DCA.

Un vero e proprio labirinto, perché l’anoressia è sempre al plurale: l’etichetta diagnostica si radica inesorabilmente in un’esistenza animata da dinamiche proprie, scandita da ritmi mai universali e riproducibili. In poche parole: incontra sempre il soggetto e la sua storia.

Per accostarsi alla clinica dell’anoressia, occorre inoltre riconoscere il legame tra anoressia e bulimia.

L’anoressia e la bulimia non sono disturbi diversi e opposti, ma strettamente interconnessi. La bulimia rappresenta lo scacco del progetto anoressico, la vittoria della fame che riaffiora ed esige di essere calmata. L’abbuffata compulsiva non avrebbe luogo senza la restrizione alimentare che la precede e  le condotte di compensazione non esisterebbero, se il soggetto non dovesse rispondere alla chiamata all’ordine e alla disciplina, dopo il caos, il fallimento, la caduta.

Le parole chiave dell’anoressia sono rifiuto e tensione. Il rifiuto del cibo è la modalità attraverso la quale l’anoressica tende ad un obiettivo.

Dietro il “No!” ostinato, c’è sempre una tensione verso uno scopo, ed è sempre individuabile una precisa postura del soggetto nei confronti dell’Altro. Si potrebbe dire che il soggetto rifiuta il cibo per amore o per odio.  Pronuncia il “No!” per ottenere l’amore dell’Altro o, di contro, per manifestare  un odio profondo, cieco, quasi imperscrutabile.

Nel primo caso, l’anoressica si nutre di niente per ottenere l’attenzione dell’Altro, per avere  il segno del suo amore. Disinteressata alle cure, vuole diventare il desiderio del desiderio dell’Altro, vuole cioè essere importante, insostituibile, amata.

Il corpo, che perde peso e tridimensionalità, cerca di evidenziarsi agli occhi dell’Altro, spera di renderlo mancante, non più onnipotente, non più distratto.  Lo piega al suo capezzale, lo obbliga ad interrogarsi, lo mette in crisi, lo castra – direbbe Lacan.

Gli chiede la prova d’amore per eccellenza: dare quello che non ha. La formula è lacaniana: amare non è dare ciò che si possiede, ma ciò che non si ha, ciò che costa fatica e richiede uno sforzo.

Il primo niente è anche un oggetto scudo col quale l’anoressica protegge il proprio desiderio, la propria vocazione, i propri sogni da un contesto che li misconosce o li soffoca con un eccesso di cure. Ed è un oggetto separatore, perché offre l’illusione di un’indipendenza assoluta dall’Altro.

In realtà, l’autarchia anoressica rappresenta il tentativo di negare la dipendenza, sfuggendo alla precarietà e alle insicurezze che la relazione con gli altri impone.

Ma, scrive Michela Marzano: “È solo quando si accetta la dipendenza che si diventa liberi. Perché si accetta quella parte di fragilità che ci portiamo dentro. Perché si accetta di non «avere tutto» e di non «essere tutto». Perché si capisce che l’altro «ha qualcosa» che noi non abbiamo, «è qualcosa» che noi non siamo… Per anni, la storia della mia vita è stata l’esatto contrario. Avevo talmente tanta paura della dipendenza che facevo «come se» non avessi bisogno di niente e di nessuno. E lo mettevo in scena col cibo. Come se non avessi bisogno di mangiare. Come se il cibo mi fosse indifferente[2].

Questo rifiuto del cibo chiede dunque di essere interpretato, nasconde un messaggio,  una ferita d’amore da superare, una perdita da simbolizzare, l’incapacità di accettare i propri limiti o un profondo senso di inadeguatezza dinanzi all’imperativo categorico di perfezione imposto dalla società.  Scrive ancora Michela Marzano: “La vera difficoltà era accettare me stessa… anche se non ero la più brava… anche se papà non era d’accordo con me… anche se sbagliavo, perdevo, cadevo, piangevo…

Questo primo niente ha dunque una natura dialettica, un’urgenza comunicativa veicolata da tutto il corpo. Il soggetto indossa l’uniforme anoressica, si rende simile a molti altri,  per dire qualcosa di profondamente suo, sperando in fondo che qualcuno accolga il grido e lo trasformi in domanda, perché, mentre il grido si perde nella notte,  la domanda insiste e attende una risposta.

Il secondo niente non chiede, non vuole, non aspetta nulla. Non è in rapporto con il desiderio dell’Altro, ma espressione di godimento, realizzazione del principio di Nirvana: il soggetto nega la vita, rifiuta la spinta di Eros, mira alla quiete più assoluta. Preserva questo stato di apatia fino alla morte.

L’astinenza dal cibo, in questo caso, non può dire nulla dell’anoressica se non della sua volontà di autodistruzione. Nulla manifesta se non il suo odio mortale  per l’Altro. Massimo Recalcati parla a tal  proposito di vocazione mortifera di tipo melanconico-tossicomanica[3], da collocare sul piano della psicosi proprio per  il rifiuto radicale dell’Altro, per il desiderio abulico e per il godimento sfrenato che la caratterizza.

L’anoressica non ha più fame d’amore, ma appetito di morte[4] e rende il suo corpo granitico perché lo vuole inaccessibile, perché agita dalla pulsione di morte, perché chi prova ad incontrarne il dolore si frantumi. Scrive Virginia Woolf nel suo Diario: “Io non amo il mio prossimo. Li detesto tutti. Li rasento appena. Lascio che si rompano su di me come gocce di pioggia sporca”[5].

 

[1] Massimo Recalcati, Un cammino nella psicoanalisi. Dalla clinica del vuoto al padre della testimonianza (Inediti e scritti rari 2003-2013), M. Giorgetti Fumel (a cura di), Mimesis, Milano 2016; Massimo Recalcati, Sull’odio, Bruno Mondadori, Milano 2003 e Massimo Recalcati, La clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, Franco Angeli, Milano 2002  sono i testi di riferimento.

[2]  Michela Marzano, Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere, Mondadori, Milano 2011

[3] Massimo Recalcati, La clinica del vuoto in Jacques Lacan e la clinica contemporanea, Isabella Ramaioli, Domenico Cosenza , Pietro Enrico Bossola (a cura di), Franco Angeli, Milano 2003.

[4] Jacques Lacan I complessi familiari nella formazione dell’individuo, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2005

[5] Virginia Woolf, Diario di una scrittrice, Minimum fax, Roma 2005.

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