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Il selfie per un nuovo sguardo su di sé

Psicologa, psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico. Terapeuta EMDR, diplomata presso il Minotauro, lavora privatamente allo Studio Artecrescita di Milano con giovani adulti ed artisti. Autoriz...
selfie

June, una ragazza francese mi contatta online per un percorso tra fotografia e psicologia.

Ha iniziato a fotografarsi con assidua frequenza e interesse un paio d’anni fa. In seguito ad una dieta che inaspettatamente le ha fatto perdere una decina di chili, tanti abbastanza da vedersi molto diversa. Poco dopo ha cambiato anche il taglio di capelli, da lunghi e lisci è passata ad un caschetto più adulto.

Si vergognava di tutta questa attenzione dedicata al suo volto, si sentiva giudicata da una società che definisce chi si fotografa un narcisista, senza capirne il bisogno sottostante.

June cerca su Instagram tra gli hashtag psicologia e fotografia per capirne di più, e mi trova così. Mi contatta alla ricerca di una risposta: i suoi selfie non sono una perdita di tempo, lo sa, ma da me cerca aiuto per capirne il significato.

Partiamo dalla comprensione che tutto è iniziato per registrare un cambiamento, tra la crescita e la forte perdita di peso, poi l’esplorazione è confluita in una celebrazione della nuova immagine di sé.

Durante questo periodo di ricerca, June conosce un ragazzo che vive lontano, in un’altra città del sud della Francia. Inizia a scattarsi selfieanche per lui, e l’immagine che viene fuori è ancora diversa. June non si vede più come ragazzina goffa, ma vede una donna, bella e sensuale. Inizia ad esplorare l’immagine del suo corpo questa volta per lo sguardo di lui.

L’abitudine a scattarsi selfie, a relazionarsi in modo costante con la sua figura, la porta a fotografarsi anche in momenti di dolore. La morte di un’amica segna il suo percorso e il telefono si riempie di selfie di June in lacrime.

Mi racconta come fotografarsi nel momento di crisi acuta di pianto le permetteva di controllare l’emozione, di uscirne più in fretta. Mi chiede se è perché l’emozione non era autentica: mette in dubbio il suo dolore perché la fotografia le permette di uscirne.

Le spiego la teoria di Stefano Ferrari, l’acrobazia dell’autoritratto, per cui il soggetto si fotografa in seguito al bisogno di acquisire familiarità con la sua immagine, vedendola da un punto di vista esterno la può guardare, capire, accettare ed interiorizzare.

Fotografarsi al culmine di un’emozione permette di uscire dalla stessa osservandola da fuori, per capirla, accettarla e dunque elaborarla.

June viene in terapia per capire cosa ha fatto e per avere l’autorizzazione a continuare a fotografarsi, per uscire dal senso di colpa, dall’imbarazzo e dallo stigma del narcisismo di chi si fotografa. Vuole trovare le parole per spiegarlo a sua madre e a sua sorella che invece la vedono tutt’ad un tratto troppo concentrata su di sé, criticandola per il suo cellulare pieno di selfie.

Vi portiamo oggi questo caso per riflettere sull’importanza che hanno gli autoritratti: non sono soltanto una comunicazione idealizzata di sé su instagram, ma anche se lo fossero, non sarebbero da ignorare, anzi andrebbero capiti, accettati, magari per arrivare ad una comunicazione più autentica.

 

E voi, cosa pensate dell’utilizzo del selfie in terapia? Vi è mai capitato che un paziente ve ne mostrasse? Se sì, come avete reagito? Siete stati capaci di accoglierlo integrandone il significato in terapia? Se no, quali sono state le vostre difficoltà?

Vi piacerebbe poter utilizzare l’autoritratto per lavorare sulla percezione dell’immagine di sé da parte del vostro paziente?

  • Ferrari, S. (2002), Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia. Editori Laterza, Roma.
  • Weiser J., PhotoTherapy Techniques: Exploring the Secrets of Personal Snapshots and Family Albums, PhotoTherapy Centre Publishers 1999 Vancouver

 

La Phototherapy nella Pratica Clinica: Autoritratto, Sogno e Narrazione di sé

Assieme alle Dott.sse Floriana Di Giorgio e Francesca Belgiojoso, questo corso ondemand approfondisce la fotografia nella pratica clinica come strumento estremamente versatile, che funziona come attivatore e promotore della conoscenza di sé nelle terapie individuali, e diviene strumento ottimale per laboratori espressivi o contesti formativi di gruppo.

 

DISCUSSIONE

Maria:

Molto interessante questo nuovo punto di osservazione di un fenomeno così in fretta giudicato ed etichettato come quello del selfie. Il caso utilizzato mi ha fatto pensare a quanto in realtà sia utile “sfruttare” un contenuto poco canonico per entrare nel mondo del cliente, guardando con i suoi occhi.
Ho pensato a quanto questo strumento possa essere ancora più utile nel caso di adolescenti che vivono il cambiamento evolutivo: l’autoritratto può essere ancora più potente per aiutare a guardarsi dall’esterno dando senso all’interno.

Mi piace molto questa idea di utilizzare contenuti e strumenti che fanno parte della realtà quotidiana per creare una strada verso il mondo interno di chi abbiamo di fronte.

E’ interessante perché, nel caso specifico, June porta la questione già come una domanda su di sé, con un grado di consapevolezza tale da trasformarla in un ponte per la relazione terapeutica.
Molto utile anche il passaggio rispetto all’importanza che riveste lo sguardo dell’altro; mi sembra sia un modo per concretizzare e di conseguenza rendere più fruibili alcuni contenuti che altrimenti sarebbero più difficilmente narrabili.

Mi chiedevo però se l’utilizzo che June fa dell’autoritratto può avere a che fare anche con il “prendere le distanze” da contenuti emotivi, che può dar senso alla ricerca di un partner spazialmente distante e di una terapia online.

Francesca Belgiojoso:

Assolutamente, lavorando con l’adolescente, il selfie è uno strumento più che utile per accompagnarlo nella comprensione di sé in un momento dove l’immagine cambia quotidianamente e lo strumento selfie è già a lui ben noto.
Il selfie può essere introdotto sia in terapia individuale che utilizzato come strumento all’interno di laboratori espressivi su tematiche quali emozioni, cambiamenti, crescita, gruppo classe ecc.

Sono inoltre d’accordo che June non è una paziente qualunque, ha già iniziato una ricerca su di sé tramite quella che viene definita “fotografia terapeutica” – (l’utilizzo della fotografia per indagare temi e significati personali in autonomia) – e la porta da me per ricavarne un senso ulteriore. Solitamente è il terapeuta a proporre l’uso della fotografia in terapia: “fototerapia”. Sono due etichette simili per descrivere qualcosa di molto diverso.

Sicuramente avere un partner lontano e uno sguardo da nutrire ha favorito e alimentato la ricerca fotografica di June, dandole uno spunto per ampliare la sua visione.

Riguardo alla sua proposta interpretativa, perché no, la tengo volentieri in considerazione, mi sembra un parallelo raffinato.
Il selfie permette di prendere le distanze dai contenuti emotivi, ma anche poi di riappropriarsene in modo elaborato lavorando sull’immagine creata.

(La scelta di una terapia online – in questo caso più un percorso attraverso le phototherapy techniques che terapia – può essere giustificata dal fatto che cercasse un terapeuta specializzato nell’uso della fotografia – da qui il prediligere un percorso con me online in inglese piuttosto che cercare un terapeuta in loco).

Marina:

Buon pomeriggio, grazie per la condivisione del caso di June. Trovo molto interessante questo aspetto dell’utilizzo dei selfie, dell’autoritratto in terapia. Premetto che ancora non esercito la professione. Però credo che questo strumento potrebbe rivelarsi molto efficace soprattutto per il lavoro con gli adolescenti. Forse potrebbe sembrare banale l’associazione adolescente-selfie. Però se ci pensiamo bene, i social sono lo strumento attraverso il quale gli adolescenti possono esprimersi, esprimere ciò che sono e le loro emozioni. E quindi perché non accogliere questo in terapia?

Vorrei chiedervi, ricollegandomi al caso di June come si potrebbe procedere nel lavoro sulla percezione del sé? come June potrebbe comunicare in modo efficace a sua madre e sua sorella questo aspetto dell’utilizzo dei selfie e quindi farsi capire da loro?

Francesca Belgiojoso:

Buonasera Martina, grazie per il suo contributo. Niente è mai banale qui, neanche l’associazione tra selfie e adolescente 🙂

Rispetto al lavoro con June, sentire da me la spiegazione delle dinamiche psicologiche che stava affrontando attraverso la fotografia, l’ha autorizzata a procedere, si è sentita legittimata, ha capito cosa stava facendo e pian piano è riuscita lei, con le sue parole, le sue foto e i suoi comportamenti, a farlo capire a madre e sorella.

Non è stato difficile, attraverso la condivisione di alcuni aspetti del nostro lavoro insieme, anche loro hanno capito il significato psicologico di ciò che stava accadendo, che aveva anche un riscontro nella maggior consapevolezza di sé che June gradualmente acquisiva.

“Come si potrebbe procedere nel lavoro sulla percezione di se?”
Oltre al lavoro con l’autoritratto, sono due le tecniche di Judy Weiser che aiutano ad indagare in modo diretto questo aspetto.

Ad esempio, si possono guadare le fotografie del passato della paziente, (FOTO DEL PAZIENTE SCATTATE DA ALTRE PERSONE è il nome esatto della tecnica di Judy Weiser) si potrebbe chiederle di portare fotografie della sua infanzia e della sua adolescenza per guardare alla storia nella percezione di sé.
Come si è vista nel tempo? Qui occorre dapprima indagare fotografia per fotografia, guardare poi al complesso delle immagini e delle storie e raccogliere ciò che è emerso.

Attraverso le foto dell’ALBUM DI FAMIGLIA si coinvolgono anche amici e familiari. Come si percepisce il paziente rispetto agli altri componenti della famiglia o rispetto ad altre persone e relazioni importanti? Ora e nel tempo?

Giulia:

Caso molto interessante. Mi sorprende pensare a quanto una semplice foto possa farci riflettere. Leggendo la storia di June mi ha subito colpito che lei sia molto consapevole di quanto la fotografia possa aiutarla, mi riferisco a quando dice che lei si fotografa nei momenti di maggiore dolore perchè la fotografia la aiuta a uscirne prima e perciò il suo telefono era pieno di selfie in lacrime.
Sorprendente quanto uno strumento (la fotografia) che usiamo tutti i giorni possa aiutarci.

Premetto che non esercito ancora la professione. E quindi non mi è ancora mai capitato che un paziente venisse da me e mi mostrasse delle foto. Ma colgo volentieri l’occasione per rifletterci ora.
Sicuramente mi piacerebbe saperne di più su quando la paziente ha iniziato a fotografarsi e quando ha capito che le foto la aiutavano a gestire il dolore o le altre emozioni. La fototerapia è un’ottima tecnica per lavorare sull’accettazione del proprio corpo. Permette al paziente di vedersi con un occhio esterno, gli permette di capire come gli altri lo vedono e di accettarsi.

Floriana Di Giorgio:

June quando arriva in terapia da Francesca già utilizzava la fotografia per fotografarsi. Attraverso la “fotografia Terapeutica” (ossia l’utilizzo della foto per conoscersi o affrontarsi un periodo o tema della propria vita al di fuori di un contesto terapeutico o di aiuto) aveva già sperimentato questo strumento e aveva confidenza con esso.
June cerca poi una terapeuta che utilizzasse le foto. Quindi nel suo caso siamo davanti ad una paziente che già ha fatto esperienza dello strumento e ha una familiarità con esso. Per cui le è più semplice usarlo per parlare di sé e per affrontare momenti difficili e dolorosi, come nel caso della morte della sua amica. E’ sempre incredibile come questo strumento ti permette di entrare in contatto con l’emozione che stai provando. E’ come una sorta di specchio che ti rimanda quello che stai provando e sentendo in quel preciso momento.

Non tutti i pazienti, però, arrivano in terapia che hanno già utilizzato la fotografia, ma si può proporre di usarla e vedere come il paziente si relaziona a questo medium. Di solito la fotografia permette di parlare più facilmente di sé e di affrontare in modo creativo momenti che verbalmente sarebbe più difficile affrontare.

Giulia:

Grazie per la risposta.
Mi stavo chiedendo, è giusto una semplice curiosità, se nella vostra esperienza vi fosse mai successo che proponendo la fotografia al paziente questi avesse rifiutato.
Perchè stavo pensando che potrebbe essere uno strumento con cui magari qualcuno si trovi a disagio, mi viene in mente un caso di bassa autostima o qualcuno che non si trovi a proprio agio nel suo corpo; può succedere quindi che il paziente rifiuti lo strumento della fotografia?

Francesca Belgiojoso:

Buongiorno Giulia,quando si propone l’utilizzo della fotografia bisogna essere ben sicuri che il paziente si trovi d’accordo e in linea con lo strumento. Spesso infatti la foto non entra proprio in terapia, non si affaccia neanche al pensiero del terapeuta.

Quando invece sembra essere uno strumento adatto al paziente, allora si propone la tecnica ideale. Tendenzialmente si inizia con il Photo-projective poiché favorisce l’introduzione della fotografia in modo soft: è proposta dal terapeuta e permette una distanza che protegge il paziente pur favorendone le proiezioni.

L’autoritratto si propone solo quando si è sicuri che il paziente ha familiarità e piacere nell’utilizzarlo.
Quindi, per rispondere alla sua domanda, il Photo-projective, nella mia esperienza, non è mai stato rifiutato. L’autoritratto sarebbe sicuramente stato rifiutato da molti, ma la proposta è arrivata solo quando sapevo che non sarebbe stata rifiutata.

Alessio:

Grazie per lo spunto di riflessione. Caso interessante.
Rispondo alle domande. Non esercito attualmente la professione, per cui non mi è mai capitato che un paziente mi mostrasse un suo selfie. Provo però ad immaginare se avessi una situazione del genere. Mi interesserebbe utilizzarlo e capirne il significato, ma chiaramente solo se fosse il paziente a portarmi tale tematica.

Io penso che dietro ad un selfie si possano nascondere mille significati che vanno colti con cura e calati all’interno della storia del paziente con molta attenzione perché il rischio di farlo subito potrebbe essere elevato. A me viene subito in mente come possa essere uno strumento di cura ad esempio nei casi di pz con anoressia nervosa, quando riprendono il peso ad esempio. Come si dice nel testo può essere uno strumento di piena consapevolizzazione ed accettazione di sé o anche rifiuto. Mi interrogo sul significato invece dei selfie di gruppo o di coppia e mi piacerebbe condividere con voi riflessioni su tale tema.

Floriana Di Giorgio:

Ovviamente si è molto diverso se il paziente porta un selfie. In quel caso ci sta portando un materiale prezioso e possiamo utilizzarlo nella terapia, o se proponiamo noi al paziente di fare delle foto di se stesso.

Tutte le tecniche di fototerapia si basano sull’approccio teorico del terapeuta. E vanno utilizzate conoscendo bene cosa può significare utilizzare una tecnica piuttosto che un’altra. E soprattutto vanno calate nella situazione clinica. Quindi come dice anche lei considerando la storia del paziente, il momento della terapia e così via. Altrimenti si come qualsiasi cosa che avviene all’interno del setting se agita senza considerare la storia del paziente e il momento del processo terapeutico rischia di essere rifiutata. E di non essere trasformativa o comunque visto che anche gli “errori” sono importanti nella terapia ci fa capire che non è ancora il momento per quel passaggio o, in base al paziente, ci dice delle cose di lui.

Con i pazienti con disturbi alimentari può essere si utilizzato, anzi a volte è davvero molto utile, ma bisogna stare molto molto attenti, comprendere se il paziente possa sostenere quella emozione e quel confronto con se stesso e così via. Quindi anche qui sempre calato nel percorso terapeutico e nella storia di vita del paziente.

Rispetto al selfie di coppia e di gruppo devo dire che è davvero un argomento molto interessante. Io sono terapeuta individuale e non ho esperienza con coppie e gruppi. Con i gruppi solo nei laboratori, ma non mi è mai capitato di lavorare con selfie di gruppo. Pensavo, però, che sarebbe davvero interessante nel lavoro di coppia vedere come entrambi i membri si percepiscono in una foto. E da ciò vedere che emozioni escono fuori, se ci sono similitudini, differenze tra i due. Davvero interessante, chissà se nel forum c’è qualche terapeuta di coppia o di gruppo a cui è capitato che abbiano portato un selfie.

Emanuela:

Lavoro spesso con persone in sovrappeso che hanno grosse difficoltà a vedersi in fotografia. Per lo più evitano di incrociare la macchina fotografica. Evitano le foto di famiglia e sicuramente non si fanno selfie. Eppure recentemente una delle mie paziente che si trova in un momento di svolta nel suo percorso personale, ha insistito per farmi partecipe di foto fatte in occasione della festa del papà che ritraevano da parte di un fotografo professionista lei ed i suoi due figli.

Mi sono resa conto subito che si trattava di un momento prezioso, intimo ed importante.
Mi ha chiesto più volte come la vedevo e ho riproposto la domanda chiedendo a lei cosa vedeva in quella foto. Ne sono venuti momenti di grande apertura che ha sicuramente fatto fare agli incontri un grosso passo in avanti.

Vista l’esperienza farò tesoro di materiali fotografici che mi saranno mostrati spontaneamente, perchè ritengo siano molto importanti per una apertura del paziente!

Francesca Belgiojoso:

Che bello Emanuela. Grazie per questa testimonianza che ben rappresenta come spesso il terapeuta si avvicina all’uso della foto in terapia: quando la foto viene portata dal paziente.

Spesso infatti è grazie ad episodi come quello che lei ci porta, che il terapeuta si rende conto dell’occasione e dell’importanza dello strumento per indagare moltissimi aspetti della vita del paziente, passata, presente e futura.

Se ritiene che questo sia uno strumento che si addice al suo setting e al suo orientamento teorico, la invito a continuare la formazione per sperimentare le varie tecniche che la fotografia permette.

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