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Il ruolo dei Meccanismi Epigenetici nel Trauma intergenerazionale

Lo studio esamina la trasmissione intergenerazionale degli effetti traumatici e il possibile ruolo dei meccanismi epigenetici in questa trasmissione.

 

Sono evidenziate due ampie categorie di effetti epigeneticamente mediati.

  1. Il primo riguarda gli effetti programmati a livello di sviluppo. Questi possono derivare dall’influenza delle prime esposizioni ambientali della prole, comprese le cure materne postnatali, nonché dall’esposizione uterina che riflette lo stress materno durante la gravidanza.
  2. La seconda comprende i cambiamenti epigenetici associati a un trauma pre-concezionale nei genitori che può influenzare la linea germinale e l’impatto sulle interazioni feto-placentari. Diversi fattori, come gli effetti epigenetici specifici del sesso dopo l’esposizione al trauma e lo stadio di sviluppo dei genitori al momento dell’esposizione, spiegano i diversi effetti del trauma materno e paterno.

Il lavoro più convincente finora è stato svolto nei modelli animali, dove l’opportunità di progettazioni controllate consente una chiara interpretazione degli effetti trasmissibili. Data la scarsità di studi sull’uomo e le sfide metodologiche nella conduzione di tali studi, non è possibile attribuire effetti intergenerazionali nell’uomo a un singolo insieme di determinanti biologici o di altro tipo in questo momento.

 

Chiarire il ruolo dei meccanismi epigenetici negli effetti intergenerazionali attraverso studi prospettici e multigenerazionali può alla fine produrre una comprensione cogente di come le esperienze individuali, culturali e sociali permeano la nostra biologia.

Ci sono ora prove convergenti a sostegno dell’idea che la prole sia influenzata da esposizioni al trauma parentale. Quando si verifica prima della loro nascita, e forse anche prima del loro concepimento.

Al livello più semplice, il concetto di trauma intergenerazionale riconosce che l’esposizione a eventi estremamente avversi colpisce gli individui a tal punto che i loro figli si trovano alle prese con lo stato post-traumatico dei loro genitori. Un’affermazione più recente e provocatoria è che l’esperienza del trauma – o più precisamente l’effetto di quell’ esperienza. Questa, viene “passata” in qualche modo da una generazione all’altra attraverso meccanismi non genomici, possibilmente epigenetici, che influenzano la funzione del DNA o la trascrizione genica.

La trasmissione intergenerazionale (da F0 a F1) che transgenerazionale (da F0 a F3 o F4) degli effetti negativi ambientali sono state stabilite in modelli animali. Eppure, gli studi sull’uomo non hanno ancora dimostrato che gli effetti del trauma siano ereditabili attraverso meccanismi non genomici (cioè epigenetici). Tuttavia, c’è stato molto fervore a riguardo. Anche una prematura promulgazione dell’idea che tali effetti sono trasmessi attraverso modifiche del DNA, spiegando l’impatto dell’esperienza familiare.

L’inclinazione ad attribuire effetti discendenti ai meccanismi epigenetici riflette in parte l’uso inesatto e vario del termine “trasmissione“. L’uso originale era descrittivo, e senza inferenze meccanicistiche. Ora che la ricerca sugli animali ha definito un percorso molecolare attraverso il quale potrebbe verificarsi la trasmissione degli effetti traumatici, è necessario un linguaggio più preciso per distinguere tra osservazione clinica e meccanismo biologico. Al momento attuale, l’idea che i meccanismi epigenetici siano alla base delle osservazioni cliniche nei figli dei sopravvissuti al trauma rappresenta un’ipotesi da testare.

Questa review delinea potenziali meccanismi epigenetici che potrebbero essere esaminati in relazione agli effetti sui discendenti e fornisce informazioni sul tipo di studi che potrebbero essere più informative.

 

L’origine degli studi sugli effetti del trauma intergenerazionale

Il concetto di trauma intergenerazionale è stato introdotto nella letteratura psichiatrica attraverso descrizioni di problemi comportamentali e clinici nella progenie di sopravvissuti all’Olocausto.

In un documento fondamentale che descrive tre pazienti che si sono presentati per un trattamento psichiatrico, Rakoff ha scritto: “I genitori non sono visibilmente distrutti, eppure i loro figli, nati tutti dopo l’Olocausto, mostrano una grave sintomatologia psichiatrica. Sarebbe quasi più facile credere che essi, più che i loro genitori, avessero subito l’inferno corruttore».

Questo rapporto iniziale ha generato reazioni per lo più negative. Inclusa la cautela sulla generalizzazione da quelle che avrebbero potuto essere osservazioni idiosincratiche in un piccolo numero di casi estremi. Alcune parti interessate potrebbero aver ritenuto che il suggerimento che la sopravvivenza al trauma del genocidio avesse implicazioni deleterie per la progenie fosse stigmatizzante di fronte alla narrativa culturale emergente sull’Olocausto. Narrativa che era di sopravvivenza contro ogni previsione, resilienza e sfida nella speranza di prevenire tali eventi in futuro.

Il rapporto aneddotico iniziale e le reazioni ad esso, hanno generato molte ricerche empiriche sulla questione. Se e come la progenie dell’Olocausto, concepita e nata dopo la seconda guerra mondiale, fosse colpita. Sono apparsi centinaia di articoli, a partire dagli anni ’70 e proseguendo per alcuni decenni da allora in poi. Gli studi descritti in questi rapporti non sono riusciti a trovare effetti sulla progenie dell’Olocausto. Hanno corroborato le precedenti descrizioni cliniche. Hanno tentato di limitare le osservazioni degli effetti dannosi a un sottogruppo. Oppure, hanno indicato gravi sfide metodologiche nel tentativo di affrontare questa domanda empiricamente.

 

Trauma Collettivo e Resilienza

Trauma Collettivo e Resilienza

 

Un’ampia gamma di fenomeni è stata descritta in studi che riportano difficoltà comportamentali nella progenie dell’Olocausto. Questi includevano:

  • sentimenti di identificazione eccessiva e identità fusa con i genitori
  • autostima ridotta derivante dalla minimizzazione delle esperienze di vita della prole rispetto al trauma dei genitori
  • tendenza alla catastrofizzazione
  • preoccupazione che i traumi dei genitori si sarebbero ripetuti
  • disturbi comportamentali come ansia, incubi traumatici, disforia, senso di colpa, ipervigilanza e difficoltà nel funzionamento interpersonale

Tali studi spesso non hanno tenuto conto della psicopatologia dei genitori, ma l’hanno ipotizzata sulla base dell’esposizione dei genitori.

Tipi simili di sintomi sono stati successivamente descritti nei bambini dei veterani del Vietnam. Un fenomeno che è stato definito “traumatizzazione secondaria”. Questo concetto non implicava una trasmissione intergenerazionale. Piuttosto, si riferiva alla natura stressante della convivenza con un individuo traumatizzato che potrebbe esprimere sintomi e raccontare o rivivere esperienze orribili.

In assenza di meccanismi biologici per spiegare i risultati riportati, le spiegazioni erano quasi esclusivamente psicodinamiche o comportamentali. Ad esempio, è stato suggerito che i sopravvissuti al trauma esternassero i loro sintomi post-traumatici attraverso i loro comportamenti non verbali e rievocazioni inconsce di paura e dolore. In modo tale che il bambino diventasse un contenitore per le esperienze indesiderate e preoccupanti del genitore.

Le distinzioni tra “trasmissione” da genitore a figlio in cui il disturbo nel bambino era una diretta conseguenza di una condizione psichiatrica nel genitore rispetto a un effetto che rifletteva la reazione del bambino ai sintomi nei genitori, erano fatte con attenzione. Per evitare di attribuire erroneamente effetti sulla prole a precedenti esposizioni a traumi dei genitori. Sono state sviluppate anche altre prospettive, comprese le dinamiche familiari, la teoria dell’attaccamento, la psicologia sociale e la teoria dell’apprendimento.

Una delle osservazioni più provocatorie sulla progenie dell’Olocausto è stata la relazione secondo cui i veterani di guerra dello Yom Kippur avevano maggiori probabilità di sviluppare un disturbo da stress post-traumatico (PTSD), in risposta al combattimento, se avevano un genitore sopravvissuto all’Olocausto. Una maggiore prevalenza di disturbo da stress post-traumatico, disturbi dell’umore e d’ansia è osservata anche nella progenie dell’Olocausto. In gran parte selezionata da un campione di convenienza di persone in cerca di trattamento per problemi legati all’Olocausto, rispetto ai controlli.

Questi risultati sono stati replicati in uno studio che ha valutato la relazione tra PTSD nella prole e i propri genitori, valutata direttamente dal colloquio clinico del genitore. La maggiore prevalenza del disturbo da stress post-traumatico nella prole dell’Olocausto in risposta alle proprie esposizioni traumatiche è stata successivamente associata al disturbo da stress post-traumatico materno nei sopravvissuti all’Olocausto. Il disturbo da stress post-traumatico era riscontrato in associazione al disturbo da stress post-traumatico paterno. Tuttavia, in uno studio sui veterani del Vietnam australiani e sulla loro progenie, il contributo dei potenziali sintomi materni, anche attraverso traumatizzazione secondaria, non è stato valutato.

È raro identificare una coorte in cui sia madri che padri hanno avuto esposizioni simili a un trauma estremo. Oppure anche una coorte in cui l’impatto del trauma della vita è valutato in entrambi i genitori. Ancora più raro avere l’opportunità di valutare la morbilità psichiatrica in entrambi i genitori e figli.

Alcuni aspetti degli effetti del trauma intergenerazionale rimangono controversi. Invece, le discussioni sull’eventuale presenza di effetti intergenerazionali clinicamente osservabili nella prole sono diventate meno controverse negli ultimi anni, con il crescente riconoscimento dell’universalità di questo fenomeno.

Attualmente, ci sono discussioni sull’impatto di eventi storici come la colonizzazione, la schiavitù e il trauma da sfollamento in molte culture. Comprendendo le Prime Nazioni e le comunità di nativi americani, afroamericani, aborigeni australiani e Maori della Nuova Zelanda, nonché in società esposte al genocidio, alla pulizia etnica o alla guerra, come cambogiani, armeni, ruandesi,  palestinesi e comunità dell’ex Jugoslavia. C’è anche una letteratura in crescita sugli effetti sulla prole a seguito di maltrattamenti nella prima infanzia materna.

L’intensa attenzione agli effetti intergenerazionali in questi diversi gruppi suggerisce che questo argomento ha un’ampia risonanza e applicabilità globale. Fornisce un mandato per una maggiore attenzione a quest’area, inclusi studi prospettici longitudinali. Questi possono essere progettati in futuro per determinare i meccanismi epigenetici alla base di questo fenomeno.

L’introduzione della ricerca biologica nello studio degli effetti intergenerazionali del trauma

La ricerca sui presunti correlati biologici degli effetti intergenerazionali è iniziata alla fine degli anni ‘40. Ci sono stati risultati di una maggiore prevalenza del disturbo da stress post-traumatico tra i discendenti con disturbo da stress post-traumatico da parte dei genitori. Questi hanno sollevato la possibilità che i discendenti dell’Olocausto potessero avere specifici fattori di rischio biologico per il disturbo da stress post-traumatico e/o altri disturbi dell’umore e d’ansia associati al trauma.

In particolare, a seguito delle proprie esposizioni traumatiche. L’introduzione della biologia nel dibattito sul trauma intergenerazionale è stato un risultato naturale degli sviluppi nel campo emergente della neurobiologia del PTSD.  Un campo che stava iniziando a chiarire questioni simili sulla natura e l’impatto a lungo termine dell’esposizione al trauma.

Il focus iniziale di questi studi era sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), per diversi motivi. In primo luogo, l’asse HPA è vulnerabile alle perturbazioni ambientali. L’ipotesi iniziale riguardo alla progenie dell’Olocausto era che le esperienze dei genitori potessero alterare la regolazione dei percorsi legati allo stress all’inizio dello sviluppo.

Questa idea era plausibile, dal momento che l’asse HPA è soggetto alla programmazione dello sviluppo iniziale. Inoltre, la disregolazione dei neurocircuiti dello stress è una caratteristica fondamentale dei disturbi dell’umore e dell’ansia, incluso il disturbo da stress post-traumatico, che si trova a essere prevalente nella prole.

Infine, ci sono stati risultati interessanti dal punto di vista direzionale di basso cortisolo e aumento della sensibilità al recettore dei glucocorticoidi (GR) nei sopravvissuti all’Olocausto e in altri soggetti esposti a traumi con PTSD. Ciò suggerisce che l’esperienza del trauma potrebbe lasciare firme biologiche di lunga durata nella biologia correlata allo stress. Queste potrebbero essere un catalizzatore per adattamenti a lungo termine.

Lo sviluppo di questo lavoro, i progressi della biologia molecolare, include la comprensione delle interazioni gene-ambiente e il contributo dei cambiamenti indotti dall’ambiente nella regolazione epigenetica dei geni correlati all’HPA. Questi progressi hanno fornito gli strumenti per esaminare come eventi salienti potrebbero risultare in una forma duratura, trasformativa, e forse anche ereditare il cambiamento, gettando le basi per futuri studi molecolari.

Gli studi pubblicati nel decennio successivo hanno dimostrato che, in assenza delle proprie esposizioni traumatiche, la progenie dei sopravvissuti all’Olocausto aveva maggiori probabilità di mostrare alterazioni dell’asse HPA associate al PTSD, come livelli più bassi di cortisolo e maggiore reattività GR. Osservazioni nella prole i cui genitori sono stati esposti ad altre esperienze traumatiche concordano con questi risultati. Ad esempio, sono stati osservati livelli di cortisolo più bassi nella progenie adulta di veterani di combattimento con PTSD rispetto alla progenie di veterani di combattimento senza PTSD.

Indagini successive hanno documentato che il disturbo da stress post-traumatico materno e paterno era associato a diversi esiti biologici. Un’analisi post-hoc dei dati sul ritmo circadiano del cortisolo ha indicato che livelli più bassi di cortisolo nella progenie adulta dell’Olocausto erano associati a PTSD materno, ma non paterno.

In un altro studio, diverse misure della sensibilità GR sono risultate direzionalmente diverse nella prole di madri rispetto a padri con PTSD. In particolare, il disturbo da stress post-traumatico materno era associato a livelli di cortisolo urinario più bassi. Inoltre era associato a una maggiore sensibilità al GR misurata dal test di inibizione del lisozima (una misura in vitro di tale sensibilità nel tessuto periferico) e dal test di soppressione del desametasone (DST). Un’interazione di PTSD materno e paterno sul cortisolo urinario e il DST ha dimostrato una ridotta sensibilità ai glucocorticoidi nella prole con PTSD paterno, ma non materno.

Le teorie iniziali postulavano che gli effetti biologici della prole fossero riflessi delle proprie esperienze a seguito di genitori traumatizzati che potevano essere stati sintomatici, negligenti o altrimenti compromessi nella genitorialità. Le differenze negli effetti sulla prole in base al genere dei genitori potrebbero essere viste in modo simile. Madri e padri potrebbero essere associati a diversi tipi di ruoli e comportamenti genitoriali. Quindi, in sostanza, avere una madre, un padre o entrambi traumatizzati ha costituito una prima esperienza ambientale che ha avuto un impatto sulla prole.

A sostegno di questa idea c’erano i risultati secondo cui la progenie dell’Olocausto riportava livelli più elevati di esposizione a traumi infantili rispetto a soggetti di confronto demograficamente simili, in particolare se uno o più genitori avevano PTSD. In effetti, è stato riscontrato che il basso livello di cortisolo nella prole è associato a segnalazioni di abusi emotivi sulla prole. A quel punto hanno stabilito che il maltrattamento nella prima infanzia di per sé poteva portare a livelli di cortisolo più bassi. Anche le indagini sulla prole più giovane di madri che avevano subito abusi da bambini hanno dimostrato effetti sui livelli di cortisolo.

In uno studio, i livelli di cortisolo sono risultati più bassi nella prole di madri con maltrattamenti infantili e disturbo bipolare. Il cortisolo più basso e la reattività del cortisolo smussato erano presenti nei ragazzi e nelle ragazze preadolescenti con PTSD materno. Anche dopo aver controllato la storia di eventi traumatici giovanili e i sintomi di salute mentale. Una ridotta reattività del cortisolo allo stress è stata osservata nella prole ancora più giovane, in associazione con PTSD materno che si verifica a seguito di violenza interpersonale. Anche i neonati di donne esposte ad abusi sui minori da parte della madre hanno mostrato un cortisolo basale più basso quando esaminati a 6 mesi di età.

I ricercatori hanno anche esaminato marcatori diversi dai parametri dell’asse HPA. Uno studio ha riportato che i figli di madri esposte a traumi infantili, in particolare ad abusi emotivi, avevano una maggiore attivazione del sistema nervoso simpatico. Questo potrebbe essere un indicatore di vulnerabilità all’ansia, rispetto ai figli di madri con un basso abuso emotivo. Un effetto che è rimasto significativo dopo la contabilizzazione per PTSD e depressione materna e per esposizione a traumi infantili.

In un altro studio, l’esposizione materna agli abusi sui minori è stata associata a un volume intracranico inferiore, a causa delle differenze nella materia grigia corticale, nei neonati esaminati entro due settimane dalla nascita. È stato riportato che questo effetto è indipendente da alcune potenziali variabili intervenienti:

  • stato socio-economico materno
  • le complicanze ostetriche
  • l’obesità
  • la recente violenza interpersonale
  • lo stress pre- e postpartum precoce
  • l’età gestazionale alla nascita
  • il sesso del bambino
  • l’età postnatale al momento della scansione magnetica per immagini di risonanza.

Man mano che gli studi inizieranno a esaminare la prole in modo prospettico, iniziando in prossimità della loro nascita, sarà più facile identificare i contributi relativi delle influenze in utero e postnatale sulla prole. In effetti, parte della difficoltà nello studiare la progenie adulta di sopravvissuti a un trauma, in particolare retrospettivamente, è che è difficile fare attribuzioni sull’origine di qualsiasi manifestazione biologica osservata.

Tali esplorazioni devono invariabilmente includere anche il contributo del genotipo. Dal momento che almeno alcuni meccanismi epigenetici “programmate” possono essere stabiliti attraverso effetti gene x ambiente. In effetti, tali interazioni possono aiutare a spiegare la diversità nelle risposte della prole agli effetti traumatici.

 

Trauma Transgenerazionale: trattamenti efficaci per guarire l’Eredità del Trauma

Trauma Transgenerazionale

 

Potenziali meccanismi epigenetici per degli effetti biologici osservati nelle generazioni future di sopravvissuti a trauma

Il primo approccio scientifico di base alla comprensione degli effetti sulla prole è stato il lavoro di Meaney et al, a partire dalla fine degli anni ’80. Questo team di ricercatori si è inizialmente concentrato sugli effetti a lungo termine della manipolazione precoce dei cuccioli di ratto. Hanno utilizzato un modello in cui le madri venivano separate dai loro cuccioli neonatali per diversi minuti ogni giorno. Nell’età adulta, i ratti manipolati avevano livelli di corticosterone basali e indotti dallo stress alterati. Inoltre avevano una maggiore sensibilità al GR sull’ora legale a basse dosi e un numero maggiore di GR nell’ippocampo.

Tuttavia, in seguito è diventato chiaro che gli effetti osservati nella prole non erano mediati dalla separazione materna o dal trattamento precoce da parte dell’uomo. Piuttosto, erano mediati dal comportamento della madre dopo essersi riunita ai suoi cuccioli nella gabbia di casa, in particolare dall’entità delle leccate e toelettatura dei cuccioli. La progenie di madri che mostravano leccate e toelettatura inferiori rispetto a quelle più elevate hanno dimostrato parametri neuroendocrini e comportamentali distinti, che persistevano da F1 a F2.

Questo chiaro esempio di programmazione dello sviluppo, in cui le esposizioni postnatali nei cuccioli (cioè le variazioni nel comportamento materno di leccare e pulirsi) hanno indotto cambiamenti duraturi nel comportamento e nella reattività dell’asse HPA, sembrava rilevante per la progenie dei sopravvissuti al trauma. È interessante notare che il fenotipo neuroendocrino della prole dell’Olocausto con disturbo da stress post-traumatico materno era più coerente con l’iperprotezione materna che con la negligenza.

E’ stato riscontrato che bassi livelli di cortisolo nella prole sono associati a un’iperprotezione. L’iperprotezione materna in seguito all’esposizione allo stress è stata segnalata anche in associazione con un basso rapporto cortisolo/deidroepiandrosterone (DHEA) nella prole.

Nel 2002, un documento seminale ha dimostrato che gli effetti sulla prole di ratto di leccare e toelettatura erano associati a un cambiamento epigenetico. Vale a dire, la metilazione del DNA a un promotore del gene GR (nr3c1) nell’ippocampo. Il lavoro successivo ha ampliato questa scoperta dai segni epigenetici su un singolo gene promotore a uno a cambiamenti epigenetici raggruppati nei promotori associati all’attività trascrizionale in ampie aree genomiche. È stato determinato che gli effetti nell’età adulta sono direttamente correlati alle prime esposizioni ambientali postnatali alle variazioni nell’assistenza materna. Infatti, sono stati prevenuti dall’affidamento incrociato di cuccioli di ratto neonatale a madri che mostravano caratteristiche comportamentali diverse.

L’eliminazione degli effetti sulla prole attraverso l’affidamento incrociato è un potente esempio di trasferimento sociale di informazioni attraverso il comportamento dei genitori, non il DNA dei genitori o l’eredità biologica. Eppure questi risultati hanno costituito un potente esempio di come i primi input ambientali e il comportamento dei genitori potrebbero influenzare la metilazione del DNA della prole, il comportamento e la funzione della reattività allo stress neuroendocrino per più di una generazione.

È difficile sopravvalutare il livello di attivazione generato dai risultati che dimostrano un’alterazione epigenetica nel cervello in risposta alle variazioni nell’assistenza materna postnatale. I meccanismi epigenetici e il loro ruolo centrale nello sviluppo fossero noti sin dagli anni ’40. Tuttavia, in seguito alle descrizioni iniziali di C. Waddington di questi meccanismi molecolari, questi concetti non erano stati precedentemente applicati come spiegazioni su come le esposizioni ambientali  (comportamenti dei genitori) potessero riprogrammare l’ormone dello stress. Questo colpisce il cervello e il comportamento della progenie.

Questa elegante serie di studi ha fornito un chiaro legame molecolare tra il comportamento materno e la funzione genica nella prole, mediato da meccanismi epigenetici. Ha prodotto correlati biologici funzionali nelle misure endocrine e comportamentali legate alla reattività allo stress. Il lavoro di Meaney et al ha anche chiarito la possibilità che gli effetti epigenetici possano verificarsi in varie fasi della vita, influenzando potenzialmente il rischio e la vulnerabilità per le risposte croniche a traumi. Ad esempio, il disturbo da stress post-traumatico, per tutta la durata della vita.

La rilevanza dei meccanismi epigenetici per gli effetti di trauma intergenerazionale

Il termine “epigenetica” si riferisce a un insieme di cambiamenti potenzialmente ereditabili nel genoma che possono essere indotti da eventi ambientali. Questi cambiamenti influenzano la funzione del DNA genomico, delle sue proteine ​​istoniche associate e degli RNA non codificanti, indicati collettivamente come cromatina. Tuttavia, non implicano un’alterazione della sequenza del DNA.

Tra i molti meccanismi di regolazione epigenetica che sono stati descritti, la metilazione del DNA nel sito della citosina è stata caratterizzata nel genoma dei mammiferi. Altri regolatori della cromatina includono la modifica post-traduzionale degli istoni e la segnalazione dell’RNA di accompagnamento, nonché i cambiamenti di ordine superiore nell’organizzazione dei nucleosomi.

Le modificazioni epigenetiche influiscono sulla funzione del gene alterando gli elementi regolatori del gene che influenzano l’azione dei fattori di trascrizione genica. In generale, la metilazione all’interno di specifiche regioni del gene è un modo efficiente di silenziare il gene.  Fornisce un meccanismo molecolare per il verificarsi di interazioni gene-ambiente indipendentemente da uno specifico marcatore genetico o versione del gene. Tuttavia, l’effettivo contributo delle influenze genetiche sugli eventi indotti dall’ambiente è stato studiato in modo insufficiente.

L’impatto di un cambiamento epigenetico sulla funzione genica è determinato:

  • dalla natura specifica e dalla posizione di un segno epigenetico sul gene
  • dalla sua vicinanza al sito di inizio della trascrizione e, eventualmente, ad altre regioni regolatorie genomiche di interesse.

Non è cosa da poco determinare la posizione su un gene, o all’interno del genoma, che attiverebbe i fattori di trascrizione rilevanti che si traducono in un cambiamento fenotipico. Il lavoro di Meaney et al ha stabilito un meccanismo molecolare per la programmazione postnatale dei glucocorticoidi. Ha identificato le regioni all’interno del promotore del gene GR che provocano cambiamenti duraturi nei sistemi biologici associati alla risposta allo stress nella prole.

Studi successivi si sono basati su queste informazioni esaminando il promotore dell’esone 1F, un’area relativamente piccola del gene GR. In effetti, potrebbero esserci numerose altre aree di interesse sul GR e altri geni che devono ancora essere identificati.

Studi traslazionali che collegano meccanismi epigenetici associati all’assistenza materna negli animali con le avversità infantili e gli effetti sulla generazioni future negli esseri umani

Il primo studio documentato sul promotore GR nell’uomo ha mostrato una maggiore metilazione del promotore ippocampale GR 1F nel tessuto post mortem di vittime adulte di suicidio con una storia di abusi infantili.  Dunque, simile ai risultati nei cuccioli di topo allevati da madri che fornivano bassi livelli di leccamento e toelettatura. I risultati nel cervello umano delle vittime di abusi implicavano che i traumi dello sviluppo precoci come quelli perpetrati dai tutori primari potrebbero influenzare gli stessi sistemi di sviluppo neurobiologici di quelli coinvolti nelle cure materne precoci.

A seguito di questa osservazione nel tessuto cerebrale post mortem, è stato riscontrato che una maggiore metilazione del promotore GR nei leucociti circolanti di adulti sani è associata a genitorialità interrotta, inadeguata o abusiva.

Il lavoro di cui sopra ha fornito una forte motivazione per l’esame della metilazione del promotore GR nelle cellule mononucleate del sangue periferico della progenie dell’Olocausto. Parallelamente alle osservazioni neuroendocrine, i risultati di queste analisi hanno indicato una significativa interazione del disturbo da stress post-traumatico materno e paterno sulla metilazione del gene GR. L’interazione ha dimostrato che, in assenza di disturbo da stress post-traumatico materno, la prole con disturbo da stress post-traumatico paterno mostrava una maggiore metilazione del promotore GR. La prole con disturbo da stress post-traumatico sia materno che paterno mostrava una metilazione inferiore di questa regione del promotore.

La metilazione del promotore GR 1F inferiore era significativamente associata a una maggiore sensibilità al GR, come indicato da una maggiore soppressione del cortisolo post-desametasone. Inoltre, un’analisi di clustering delle scale di autovalutazione clinica ha rivelato che anche il disturbo da stress post-traumatico materno e paterno erano associati a diversi indicatori clinici. Insieme, i dati hanno suggerito che è probabile che ci siano diversi meccanismi alla base degli effetti intergenerazionali sulla biologia e sul comportamento della prole a seconda del sesso dei genitori e dello stato di disturbo da stress post-traumatico.

Alcuni risultati nella prole, tuttavia, non sono stati direttamente collegati al sesso dei genitori e allo stato di disturbo da stress post-traumatico.In alcuni casi perché la piccola dimensione del campione proibiva tale analisi. Ad esempio, uno studio preliminare ha esaminato la metilazione dell’introne 7 di FKBP5 nei sopravvissuti all’Olocausto e nei loro figli. Ha dimostrato alterazioni nello stesso sito all’interno dell’introne 7 sia nei genitori che nei loro figli, senza alcuna considerazione specifica del sesso dei genitori o del PTSD.

Il gene FKBP5 codifica per una proteina che funge da co-chaperone del complesso cortisolo-glucocorticoide legato nel nucleo cellulare. La metilazione di FKBP5 nei genitori e nei loro figli era correlata positivamente. Tuttavia, è interessante notare che erano direzionalmente distinti (rispetto ai rispettivi gruppi di controllo). La progenie dell’Olocausto che mostrava una metilazione inferiore in questo sito rispetto ai controlli demograficamente abbinati. I sopravvissuti all’Olocausto mostravano una metilazione maggiore rispetto ai rispettivi controlli.

È importante notare che gli effetti del comportamento dei genitori non devono essere confusi con gli effetti direttamente “ereditari” risultanti dalla trasmissione biologica da genitore a figlio, anche se entrambi possono essere associati a risultati epigenetici. I meccanismi epigenetici sono operativi per tutta la vita e sono altamente reattivi alle perturbazioni ambientali. È stato ora dimostrato che le esperienze stressanti come il trauma dell’adulto modificano la metilazione del gene GR nelle cellule del sangue, indipendentemente dal fatto che siano innescate dall’esperienza precoce o meno.

 

Contributi materni prenatali alla prole tramite interazioni feto placentari

Una parte emergente della letteratura ha sollevato la possibilità che gli effetti materni dell’esposizione al trauma possano contribuire a quelli della prole tramite interazioni feto placentari. Questa possibilità è in linea con i risultati clinici, neuroendocrini ed epigenetici, in cui il PTSD materno e quello paterno prevedono diversi esiti psichiatrici e biologici nella prole.

L’ambiente intrauterino presenta un contesto potente dal punto di vista dello sviluppo, meccanicamente distinto dall’ambiente parentale o familiare postnatale. E’ un contesto attraverso il quale il trauma materno o le esperienze di stress possono influenzare la programmazione epigenetica fetale dell’asse HPA. A 22 settimane di gestazione, l’asse HPA fetale è sviluppato e funzionante, anche se continua a essere sensibile all’influenza ambientale. La placenta nutre e protegge il feto. Tampona gli effetti dei glucocorticoidi materni attraverso l’espressione della 11B-idrossisteroide deidrogenasi placentare di tipo 2 (11β-HSD2). Ovvero, un enzima che converte il cortisolo in cortisone inattivo.

In modelli animali, è stato dimostrato che lo stress prenatale riduce l’espressione dell’mRNA della 11β-HSD2 e l’attività della 11B-HSD2. Entrambe sono associate a un aumento della metilazione della 11β-HSD2 nella placenta. Tali effetti dello stress prenatale avrebbero profonde conseguenze sull’esposizione fetale ai glucocorticoidi e sullo sviluppo dei sistemi ad essi sensibili, come l’asse HPA.

Il potenziale del trauma o dello stress materno di programmare lo sviluppo fetale attraverso alterazioni della placenta è stato approfondito in studi sugli animali e sull’uomo. Storicamente con un’enfasi sui marcatori dell’asse HPA, ma più di recente utilizzando misure epigenetiche.

Lo stadio gestazionale del feto è un importante fattore determinante dell’impatto delle esposizioni prenatali sulla prole. E’ indicativo delle fasi dello sviluppo fetale più sensibili. L’importanza dello stadio gestazionale nel corso dell’esposizione al trauma materno è stata evidenziata in uno studio prospettico su neonati nati da madri incinte che hanno dovuto evacuare il World Trade Center durante l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001.

La prole ha dimostrato livelli di cortisolo più bassi in associazione al PTSD materno, in particolare se la madre era stata esposta a un trauma nel terzo trimestre. A 9 mesi, i livelli mattutini di cortisolo materno erano inversamente correlati alle valutazioni materne della sofferenza del bambino e della risposta alla novità. Le madri affette da PTSD hanno valutato i loro bambini come maggiormente angosciati di fronte alle novità rispetto alle madri senza PTSD. La prole delle madri con PTSD ha mostrato segni di ansia e disturbi comportamentali.

La rilevanza dello stadio prenatale al momento dell’esposizione è stata dimostrata anche da due importanti studi epidemiologici su carestie svedesi e olandesi. Questi studi hanno individuato esiti transgenerazionali in salute e malattia nei figli e nei nipoti. Cambiamenti fenotipici ed epigenetici sono stati osservati negli adulti esposti in utero alla carestia olandese del 1944-45. Tuttavia, solo tra quelli esposti al momento del concepimento e durante la prima metà della gestazione, a confronto con quelli esposti durante il terzo trimestre o nel primo periodo postnatale.

Più recentemente, uno studio epigenetico relativamente ampio sull’“Inverno della fame” (422 esposti e 463 fratelli di controllo) ha identificato alterazioni nella metilazione del DNA nello specifico associate all’esposizione in utero alla carestia materna. Tra i soggetti esposti nelle prime fasi della gestazione, sono stati identificati ulteriori mediatori CpG. È interessante notare che l’esposizione alla carestia durante la gravidanza ha avuto effetti biologici e comportamentali sui nipoti, come l’adiposità. Questo effetto transgenerazionale è stato attribuito al fatto che l’esposizione prenatale ha un impatto diretto sia sul feto che sulle cellule germinali fetali, esponendo così direttamente la terza generazione. In uno studio recente, lo stress delle nonne durante la gravidanza è stato associato a cambiamenti di metilazione a livello genomico nella prole e nei nipoti.

Sono stati pubblicati anche studi sull’esposizione preconcezionale al trauma senza considerare specificamente l’età gestazionale dell’esposizione. Alcuni studi più piccoli hanno identificato un’associazione tra il trauma materno prenatale e la metilazione del gene NR3C1 nella prole. Livelli più elevati di metilazione del gene NR3C1 sono stati osservati nella prole di età compresa tra i 10 e i 19 anni di madri che hanno subito violenza da partner nelle relazioni di intimità durante la gravidanza, ma non prima o dopo di essa.

Una metilazione più elevata nel promotore del gene NR3C1 è stata osservata anche nei neonati di madri della Repubblica Democratica del Congo esposte a grave stress prenatale, con l’effetto maggiore rilevato per le esperienze materne di stress dovuto a zone di guerra. Anche nei figli di donne esposte al genocidio Tutsi durante la gravidanza a confronto con donne non esposte al genocidio della stessa etnia e incinte nello stesso periodo, e ai loro figli. Tra i figli di donne incinte durante la tempesta di ghiaccio del 1998 in Quebec, quelli le cui madri avevano sperimentato difficoltà oggettive, ma non disagio soggettivo, presentavano alterazioni della metilazione nei geni correlati alla funzione immunitaria.  Questi risultati suggeriscono alterazioni epigenetiche durature nella prole associate al trauma materno durante la gestazione.

Data la direzionalità di questi risultati, che è coerente con l’innalzamento dei livelli di cortisolo, è possibile che le esposizioni nelle madri che hanno origine durante la gravidanza determinino alterazioni epigenetiche direzionalmente diverse da quelle osservate nella prole in cui il trauma materno (o paterno) si è verificato prima del concepimento. Gli effetti sulla prole e i meccanismi epigenetici alla base di questi effetti possono essere diversi anche a seconda del passato di esposizione al trauma e/o dei sintomi psichiatrici precedenti alla gravidanza.

Una domanda che sorge dagli studi sulle donne traumatizzate prima o durante la gravidanza è in che misura gli effetti sulla prole siano mediati da sintomi psicologici o reazioni soggettive alle avversità. È possibile che i segnali intrauterini che influenzano la biologia fetale siano guidati da sintomi materni come ansia, depressione o iperarousal. È certamente plausibile che le donne con un trauma infantile o prenatale possano vivere la gravidanza con ambivalenza o sofferenza. Pertanto, qualsiasi alterazione nella prole può essere mediata da sintomi di salute mentale durante la gestazione e certamente si estende all’ambiente postnatale. Negli studi sulla prole dei sopravvissuti all’Olocausto, forse l’osservazione più importante è stata che la maggior parte delle differenze nel fenotipo dei figli è stata associata agli effetti psicologici persistenti dei genitori.

Questa domanda può essere parzialmente affrontata anche considerando gli studi sugli effetti dei disturbi dell’umore e dell’ansia durante la gravidanza in assenza di esposizione a traumi. Uno studio ha esplorato gli effetti della depressione materna prenatale sui livelli di metilazione nel promotore e nella regione dell’esone 1F del gene NR3C1 nel sangue del cordone ombelicale del neonato.  Ha identificato un effetto trimestrale, con la depressione/ansia materna del terzo trimestre associata a una maggiore metilazione di NR3C1 in un sito di legame previsto per NGF1-A.

Dal punto di vista funzionale, i livelli di metilazione sono stati associati alle risposte allo stress del cortisolo salivare nei neonati a 3 mesi. Questo indica che l’umore materno e la reattività dell’asse HPA della prole possono essere collegati attraverso processi epigenetici e sensibili allo stadio di sviluppo fetale. Al contrario, uno studio sull’ansia legata alla gravidanza ha rilevato che la metilazione dell’esone 1F del NR3C1 nella prole era influenzata dall’ansia materna solo durante i primi due trimestri.

 

Interazioni fetoplacentari: regolazione basata sul genere della prole

Una delle osservazioni più interessanti degli studi che esaminano gli effetti sulla prole dello stress materno durante la gravidanza è che lo stress prenatale ha effetti diversi nella prole maschile rispetto a quella femminile. Nei modelli animali di stress prenatale, l’esposizione allo stress cronico in utero ha aumentato la reattività HPA allo stress nei maschi, ma non nelle femmine. Ad esempio, si è verificata questa risposta comportamentale al test di sospensione della coda.

Questi comportamenti sono stati trasmessi alla generazione successiva tramite la linea germinale maschile. Tra i topi esposti allo stress durante la gestazione precoce, media e tardiva, i maschi F1 con esposizione allo stress prenatale all’inizio della gestazione hanno mostrato indicatori comportamentali di reattività allo stress e anedonia, nonché alterazioni nell’espressione del GR e del fattore di rilascio della corticotropina (CRF) e un’aumentata reattività dell’asse HPA, con relative alterazioni nella metilazione dei geni CRF e nr3c1.

L’importanza del sesso fetale, o più nello specifico delle cellule del trofoblasto dell’embrione che riflettono il sesso fetale, è che è in grado di regolare in modo differenziato i segnali epigenetici nella placenta. Portando, così, a un’indicazione differenziata che si ripercuote sulla prole. Queste differenze placentari legate al sesso possono trasmettere protezione o vulnerabilità al feto attraverso l’esposizione differenziale agli ormoni dello stress materno. Ad esempio, l’esposizione precoce allo stress gestazionale ha portato a differenze sessuali nell’espressione e nella metilazione di geni nella placenta associati alla crescita e al trasporto di nutrienti.

Un recente controllo delle differenze sessuali nella programmazione dell’asse HPA ha concluso che la prole femminile esposta a fattori di stress prenatale presenta una reattività dell’asse HPA più elevata rispetto a quella maschile esposta in modo analogo, con differenze nell’espressione placentare degli enzimi 11β-HSD. Tuttavia, quello stress prenatale nell’uomo è associato ad alterazioni della secrezione diurna di cortisolo nei maschi; un indicatore non evidente nelle femmine. Pertanto, gli effetti possono essere leggermente diversi a seconda della specie e del sesso, in base al parametro misurato.

Vi è un forte suggerimento che gli effetti materni prenatali producano un’ampia gamma di esiti comportamentali e biologici nella prole. Tuttavia, non vi è ancora un’importante necessità di fornire chiarimenti sui diversi contributi dell’esposizione materna, tra cui la natura e la tempistica dell’esposizione in gravidanza, il sesso del feto, la natura dei sintomi materni o altri fattori potenzialmente significativi come l’alimentazione, l’esposizione a tossine, le componenti del parto, gli effetti dei farmaci, le variabili socio-demografiche e altri potenziali mediatori.

Negli studi in cui viene esaminata anche la prole, è difficile separare gli effetti delle esposizioni prenatali dai fattori materni postnatali. Però. gli studi che valutano la prole in prossimità della nascita possono essere particolarmente informativi per quanto riguarda la biologia della prole. Saranno invece meno informativi in merito al fenotipo della prole in quanto esso viene reso evidente più avanti nel corso della vita.

Gli studi sulle esposizioni materne prenatali forniscono dati incompleti su diversi altri fattori che possono essere rilevanti per gli effetti sulla prole. Di particolare interesse sono i potenziali contributi del trauma preconcezionale nelle madri (o nei padri) alle influenze prenatali in utero. È improbabile che l’esposizione al trauma preconcezionale, lo stress prenatale e la genitorialità postnatale siano indipendenti negli esseri umani.  Ciò che rende ancora più complesso trarre conclusioni sulle influenze specifiche sulla prole.

 

Effetti intergenerazionali del trauma materno preconcezionale

Si è tentati di ipotizzare che i risultati dei traumi preconcezionali rappresentano cambiamenti epigenetici indotti dal trauma sull’ovocita. In particolare quelli che si verificano prima della pubertà. Questi vengono mantenuti durante l’embriogenesi e/o ristabiliti dopo il concepimento. Influenzando così i risultati dell’ambiente placentare.

Ad oggi non esistono studi che esaminino questa possibilità in campioni animali o umani. La complessità dell’esame di questo problema è evidente. Questo perché è metodologicamente estremamente difficile separare gli effetti nell’ovocita da quelli dell’ambiente fetoplacentare. Tutti gli ovociti di una femmina siano presenti alla nascita. Tuttavia, possono essere influenzati dalle esposizioni ambientali, in particolare durante l’infanzia. Gli ovociti rimangono in uno stato aploide de-metilato fino alla pubertà e sono quindi vulnerabili alle agitazioni ambientali.

L’idea che gli ovociti possano essere influenzati dal trauma preconcezionale è in linea con i risultati ottenuti nella prole dell’Olocausto in associazione all’età di esposizione della madre durante lo sterminio. Tuttavia, questa spiegazione sarebbe decisamente un’illazione. Il risultato è stato che l’età della madre di esposizione all’Olocausto e il PTSD materno hanno influenzato in modo indipendente i livelli di cortisolo urinario e il metabolismo del cortisolo nella prole adulta. Con effetti più forti nella prole di madri che erano in età bambina durante la Seconda Guerra Mondiale. In uno studio non pubblicato, l’età più precoce di esposizione materna all’Olocausto è stata associata anche a una minore metilazione di FKBP5 all’introne 7 nella prole.

Tali dati devono essere interpretati con cautela. Per quanto riguarda le esposizioni durante la Seconda Guerra Mondiale, compresi gli studi sulla carestia olandese, è difficile, se non impossibile, accertare con esattezza quando sia iniziato il periodo traumatico. La differenza sconosciuta associata allo stress non è misurata nelle generazioni precedenti. La sua rilevanza per eventuali esposizioni materne semplicemente non è nota e crea un ostacolo nell’accertamento dei meccanismi epigenetici. Tuttavia, i dati limitati che suggeriscono un’associazione di un’alterazione epigenetica con l’età materna al momento dell’esposizione al trauma implicano un potenziale contributo. Sia degli effetti in utero sia, eventualmente, dei cambiamenti epigenetici preconcezionali ai gameti.

La difficoltà di distinguere i diversi fattori materni che contribuiscono all’esito della prole non significa che le alterazioni epigenetiche degli ovociti non contribuiscano potenzialmente al fenotipo dei figli. Significa solo che ciò non è ancora stato determinato e richiederà metodi di studio innovativi. Tuttavia, la possibilità che i cambiamenti epigenetici legati al trauma nelle cellule germinali contribuiscano al fenotipo della prole è stata dimostrata in associazione con lo sperma.

Gli effetti sulla prole possono essere mediati, in parte, da cambiamenti epigenetici nelle cellule germinali parentali derivanti da esposizioni allo stress parentale acquisite nel corso della vita. Le cellule germinali delle femmine e dei maschi possono essere influenzate dall’esposizione ai traumi.Tuttavia, i periodi critici per l’impatto sugli ovociti e sugli spermatozoi possono essere diversi. Di conseguenza, la natura degli effetti può essere diversa negli ovociti e negli spermatozoi in relazione all’esposizione al trauma. La misura in cui i cambiamenti legati all’esposizione nelle cellule germinali sono simili alle alterazioni epigenetiche nel cervello è un’area che necessita di ulteriore approfondimento.

 

Effetti paterni preconcezionali e fenotipo della prole: prova di concetto del ruolo degli spermatozoi

Una letteratura in rapida crescita si è concentrata sulla trasmissione paterna attraverso lo sperma. Gli ovociti, che nelle femmine si formano prima della nascita. Diversamente, nei maschi la spermatogenesi ha inizio nei testicoli al momento della pubertà e prosegue per tutta la vita. Lo studio della trasmissione tramite gli spermatozoi elimina i limiti creati dalle influenze dell’ambiente fetoplacentare, dei fattori del parto e delle cure materne, come descritto precedentemente. Inoltre, l’esposizione paterna allo stress preconcezionale in qualsiasi fase dello sviluppo potrebbe avere un impatto sui gameti. Tuttavia, analogamente alle femmine, potrebbero esserci periodi critici di vulnerabilità al trauma.

Tra i meccanismi epigenetici che sono stati coinvolti nella trasmissione paterna degli effetti dello stress attraverso gli spermatozoi vi sono la metilazione del DNA, il danno ossidativo al DNA spermatico, le modifiche degli istoni e i cambiamenti nei piccoli RNA non codificanti, compresi i microRNA. Modifiche di una di queste proprietà nello sperma potrebbe influenzare l’espressione genica e altri processi biologici nell’embrione e nel feto in via di sviluppo. Ponendo, così, le basi per cambiamenti fenotipici nella prole. È importante notare che nei casi in cui tali processi risultino in modifiche della metilazione del DNA, il processo di trasmissione rimarrebbe indiretto, nonostante la mediazione delle cellule germinali. Si tratta del cambiamento legato all’evento nella biologia delle cellule germinali che genera il marchio di metilazione, non il “trauma” originale.

Ad oggi, non esistono studi noti che abbiano esaminato direttamente gli effetti transgenerazionali mediati dallo sperma nell’uomo. Pertanto, non ci sono informazioni sui cambiamenti epigenetici nello sperma dei padri esposti ad avversità con analisi dei potenziali cambiamenti relativi nello sperma dei loro figli. Tuttavia, diversi studi di osservazione hanno dimostrato che le esposizioni ambientali nel genere maschile (la carestia, l’obesità, il fumo, il consumo di alcol, l’esposizione a tossine e l’esposizione allo stress) determinano effetti comportamentali e biologici nella prole.

Alcune di queste esposizioni sono state associate anche ad alterazioni nello sperma del padre esposto. Tuttavia, i dati più convincenti che dimostrano alterazioni epigenetiche ereditabili provengono da modelli animali. Supportati da una crescente comprensione degli intricati dettagli dei meccanismi epigenetici associati all’embriologia e allo sviluppo fetale dei mammiferi.

Contrariamente a quanto inizialmente previsto, oggi si ritiene che alcuni cambiamenti epigenetici nelle cellule germinali possano sopravvivere alla cancellazione quasi globale della metilazione del DNA. Questa si verifica prima dell’impianto dell’embrione, o può associarsi ad altri meccanismi epigenetici. I segni di metilazione del DNA vengono ristabiliti in seguito alla loro cancellazione, consentendo lo svolgimento dei processi di sviluppo, inclusa la differenziazione cellulare. Alcune cellule embrionali diventeranno cellule germinali (spermatozoi e ovociti).

Nelle cellule germinali primordiali, la metilazione del DNA viene nuovamente eliminata e ristabilita in base al sesso del genitore trasmittente. A causa di un fenomeno chiamato “imprinting“, i genomi materni e paterni sono marcati e riprogrammati in modo differenziato. Un piccolo numero di aree del DNA del genitore di origine può rimanere intatto con la metilazione dello stesso.

I modelli di imprinting genomico possono avere effetti importanti sul fenotipo embrionale. Questo fornisce almeno un meccanismo epigenetico presunto, oltre agli effetti dei genitori di origine, per il trasferimento di un marchio epigenetico indotto dall’ambiente da una generazione all’altra. Va sottolineato, tuttavia, che l’esatta natura dei meccanismi coinvolti nella trasmissione tramite gameti continua a rimanere oscura e le conoscenze in quest’area sono in grande espansione, anche se tali effetti sono dimostrati negli studi sui mammiferi.

È interessante confrontare gli effetti dei padri che hanno concepito durante la fame olandese con quelli delle madri che possono aver ulteriormente influenzato lo sviluppo della prole in utero. I figli di padri F1, ma non di madri F1, che sono stati esposti prenatalmente alla carestia, hanno presentato un indice di massa corporea e tassi di obesità più elevati in età adulta.

In Svezia, la limitata disponibilità di cibo ha influenzato i tassi di mortalità dei nipoti in modo specifico legata al sesso attraverso la linea paterna. Un apporto nutrizionale limitato nei nonni paterni ha influenzato i tassi di mortalità solo dei nipoti. Invece, l’accesso al cibo della nonna paterna era associato alla mortalità delle nipoti. Questi effetti sono stati osservati solo quando l’accesso limitato al cibo si è verificato in età precedente a quella della pubertà. Quindi, a sostegno dell’ipotesi che la trasmissione avvenga attraverso la programmazione epigenetica dei gameti e possa essere mediata dai cromosomi sessuali X e Y.

Sono state fatte diverse osservazioni sul fatto che le esposizioni dei padri o addirittura dei nonni influenzano la prole attraverso meccanismi di trasmissione non genomici. Uno studio trigenerazionale sull’obesità nei maschi e nelle femmine ha dimostrato la presenza di diversi fattori di rischio e di tutela. Questi erano associati alla disponibilità di cibo dei nonni e dei genitori durante la pubertà. La sovralimentazione nei nonni paterni è stata associata a un aumento del rischio di diabete nei nipoti. D’altro canto, la limitata disponibilità di cibo nei padri è stata associata alla salvaguardia dalla morte cardiovascolare nei figli. Si è ipotizzato che questi cambiamenti fossero mediati da effetti transgenerazionali legati all’alimentazione lungo la linea maschile. Meccanismi epigenetici che coinvolgono modifiche del DNA e/o degli istoni nello sperma.

È interessante notare che una rianalisi di questi dati ha mostrato che anche le circostanze della prima infanzia del bambino erano rilevanti, quando gli studi hanno mostrato da padre a figlio. Tuttavia, quando i fattori dell’infanzia nei figli sono stati controllati nelle analisi statistiche, gli effetti di trasmissione attraverso la linea maschile sono stati rafforzati.

Anche l’entità dell’alcolismo paterno è stata associata a deficit neurologici e comportamentali nella prole. Sono stati osservati cambiamenti nella metilazione del DNA nello sperma di uomini con dipendenza da alcol o oppioidi. Però, non sono stati misurati gli effetti sulla prole. È stato riportato che il fumo aumenta il rischio di cancro infantile nella prole dei fumatori maschi. Inoltre, è stato successivamente riscontrato che esso è associato a una riduzione del numero della motilità e della morfologia degli spermatozoi e a un’alterazione dei microRNA, dei mitocondri e delle proteine dello sperma nel genitore fumatore.  I dati dello studio britannico Avon Longitudinal Study of Parents and Children hanno identificato gli effetti del fumo paterno sulla prole. Tuttavia, solo quando il vizio del fumo era presente prima della pubertà.

In questi casi, si è ipotizzato che i turbamenti ambientali all’interno dei testicoli/epididimi abbiano condotto a cambiamenti epigenetici nello sviluppo o nella maturazione degli spermatozoi. Questi sono stati poi trasferiti all’ovocita al momento della fecondazione. Influenzando così l’espressione genica del primo embrione o modulando le metiltransferasi del DNA o i regolatori degli istoni.

In assenza di studi che esaminino gli effetti del trauma attraverso la linea germinale maschile nell’uomo, i risultati sopra riportati dimostrano che un’ampia gamma di esposizione ambientale, non solo quella a traumi estremi, può avere effetti biologici e comportamentali che persistono in una o più generazioni. Studi futuri che esaminino gli effetti comportamentali ed epigenetici nello sperma in relazione all’esposizione a traumi pre e post-puberali nei maschi e nella loro prole faranno luce su questo argomento.

 

Studi sullo stress inter-e transgenerazionali nei roditori maschi

La ricerca sulla possibile trasmissione intergenerazionale degli effetti dello stress tramite segni epigenetici nello sperma è stata condotta nei roditori e comprende l’esposizione pre-concezionale in varie fasi dello sviluppo a esperienze sociali stressanti e avverse. Questi studi hanno prodotto dati molto convincenti. Suggeriscono che l’esposizione a stress estremo nei maschi può influenzare il cervello, il comportamento e lo sperma nella generazione successiva.

In uno studio, i topi maschi sono stati sottoposti al condizionamento della paura con un odorizzante all’età di due mesi (dopo la pubertà, ma non ancora adulti). L’odorizzante acetofenone, associato a una scossa elettrica, ha provocato una sensibilità comportamentale nei topi condizionati dalla paura. Un’alterazione della metilazione del DNA nel cervello e nello sperma del recettore M71, coinvolto nel rilevamento dell’acetofenone. Hanno osservato un aumento delle dimensioni dei glomeruli specifici per M71 nell’epitelio olfattivo e nel bulbo.

Anche la progenie (F1) di maschi F0 condizionati all’odore accoppiati con femmine ha mostrato cambiamenti simili nel cervello e nello sperma. Quando i maschi F1 sono stati accoppiati a loro volta, i cambiamenti cerebrali sono persistiti nella progenie dei maschi F2, dimostrando la conservazione dell’effetto attraverso due generazioni.

È stata utilizzata anche la fecondazione in vitro per impiantare gli spermatozoi F0 in una femmina neutrale. Ciò ha prodotto risultati comportamentali e biologici simili nella F1. Ciò indica ulteriormente l’ereditarietà biologica attraverso gli spermatozoi. Lo studio sulla fecondazione in vitro ha permesso di attribuire i cambiamenti agli spermatozoi e non. Ad esempio, alle reazioni materne al comportamento del padre condizionato durante l’accoppiamento o ad altri potenziali fattori di disturbo. Per eliminare ancora più accuratamente qualsiasi contributo materno agli effetti della prole, è stato eseguito uno studio di affido incrociato. Questo ha confermato l’assenza di effetti materni sul fenotipo osservato della prole.

Questa serie di studi fornisce una chiara dimostrazione di un’eredità biologica transgenerazionale. Un’eredità mediata dai meccanismi epigenetici attraverso lo sperma di un tratto comportamentale e di corrispondenti cambiamenti neuroanatomici del cervello, che persistono per due generazioni.

Un’osservazione simile di effetti paterni transgenerazionali è emersa da un paradigma diverso. Due gruppi di topi maschi sono stati esposti a un’ampia gamma di fattori di stress per 42 giorni, al momento della pubertà o dell’età adulta. Questi topi (F0) hanno mostrato cambiamenti comportamentali in risposta al fattore di stress e anche cambiamenti in diversi microRNA specifici dello sperma. I maschi sono stati allevati con femmine neutrali. Hanno prodotto una progenie con una ridotta responsività dell’asse HPA e alterazioni nella trascrizione dei geni GR nel nucleo del paraventricolo.

Questi risultati hanno confermato che l’esposizione precoce o tardiva nel topo maschio può influenzare il microRNA delle cellule germinali. Ciò è sufficiente a determinare un fenotipo simile nella generazione successiva. Confermando ancora una volta la trasmissione attraverso lo sperma in un modello animale indipendente. Questo studio è degno di nota per aver esaminato sia i maschi che le femmine della F1. Vi erano differenze significative tra i sessi nelle misure endocrine e comportamentali. Tuttavia, non era riscontrata alcuna interazione tra sesso e stress paterno nella prole di coloro che sono stati esposti durante la pubertà o l’età adulta.

Un gruppo di ricerca indipendente ha inoltre dimostrato che i piccoli RNA non codificanti (sncRNA). Questi sono comuni nello sperma e possono mediare l’ereditarietà di tratti o fenotipi acquisiti per via ambientale nei topi. In particolare, lo stress precoce è modellato dalla separazione materna imprevedibile e dallo stress materno. Inoltre, lo stress precoce ha portato a modelli comportamentali di tipo depressivo durante l’esposizione ad ambienti nuovi e a cambiamenti negli sncRNA nello sperma F1.

Gli F0 esposti a diversi fattori di stress materno imprevedibili e alla separazione hanno mostrato cambiamenti che possono essere osservati in due generazioni. I microRNA alterati degli spermatozoi dei maschi stressati sono stati iniettati in ovociti fertilizzati di tipo selvatico. Successivamente, sono stati osservati risultati comportamentali, metabolici e molecolari comparabili nella progenie. Indicando, così, la trasmissione dei marchi epigenetici. Inoltre, la progenie F3 di questi animali ha continuato a mostrare differenze fenotipiche, indicando la conservazione degli effetti dello stress attraverso lo sperma.

È importante notare che un altro studio ha dimostrato che l’arricchimento ambientale successivo all’esposizione allo stress nella F0 può invertire e prevenire alcuni degli effetti. La separazione materna precoce ha portato a una riduzione della metilazione del DNA nr3c1 nell’ippocampo e nelle cellule spermatiche. Inoltre ha influenzato un comportamento di coping insufficiente. Quando l’arricchimento ambientale è stato applicato dallo svezzamento fino all’età adulta. Gli effetti comportamentali e di metilazione non sono stati più osservati nella F0 o nella F1.

Questi risultati indicano che i cambiamenti indotti dallo stress sulle cellule germinali non sono immutabili. Possono essere invertiti da perturbazioni ambientali diverse, volte a stimolare la plasticità. È per questo motivo che gli effetti ambientali che attraversano le generazioni non predicono necessariamente conseguenze generazionali negative. Quindi, si pongono delle sfide all’interpretazione di tali effetti.

Inoltre, non tutti i fattori di stress hanno un impatto intergenerazionale sullo sperma. Per esempio, in un modello di stress da sconfitta sociale, i topi F1 maschi e femmine mostravano comportamenti alterati. I maschi F1 avevano una gamma più ampia di comportamenti interessati. Tuttavia, questi risultati non sono stati osservati quando la prole è stata generata tramite fecondazione in vitro. Questo implica un’influenza comportamentale, piuttosto che epigenetica delle cellule germinali.

Pertanto, le prove cominciano a convergere sul ruolo dei meccanismi epigenetici. Tuttavia, esiste una grande diversità di effetti e la possibilità di modificare anche i forti effetti degli RNA non codificanti, della cromatina e della metilazione del DNA. La ricerca futura potrà delineare l’esatta natura dei fattori di stress e la loro sensibilità all’inversione attraverso influenze ambientali mirate, progettate per aumentare la resilienza.

 

Conclusioni e indicazioni future per i meccanismi epigenetici

Gli studi scientifici stanno rapidamente identificando meccanismi epigenetici per spiegare come un’esposizione ambientale possa portare a un cambiamento duraturo nella funzione del DNA. Cambiamento che può essere trasmesso alle generazioni future. Questa rassegna sottolinea due ampie categorie di effetti sulla prole che possono essere sostenuti da meccanismi epigenetici.

La prima riguarda le modifiche apportate dalla prole in risposta alle proprie esposizioni ambientali nelle prime fasi della vita, o addirittura nell’utero. È probabile che questi cambiamenti siano mediati principalmente dai sintomi legati al trauma materno. Però possono essere influenzati da molteplici input, compresi gli effetti legati al trauma paterno. Il secondo sono gli effetti di un trauma parentale preconcezionale che rimangono nelle cellule germinali e dopo il concepimento. Questo influenza lo sviluppo della prole in utero e il successivo fenotipo postnatale.

In entrambi i casi, la trasmissione è il risultato degli effetti dell’esposizione dei genitori. Nel contesto della prole nata da due sopravvissuti a un trauma, è probabile che queste due tipologie di meccanismi epigenetici interagiscano. In effetti, è molto difficile distinguere i numerosi contributi potenziali al fenotipo della prole. Per non parlare di quelli legati alle esperienze vissute dalla prole stessa durante l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta.

I meccanismi epigenetici sono preferiti alle spiegazioni genetiche (o alle interazioni gene-ambiente) degli effetti intergenerazionali. In parte, per il loro potenziale di spiegare le differenze fenotipiche nella prole associate all’esposizione al trauma materno o paterno.  Hanno documentato alcune alterazioni neuroendocrine ed epigenetiche in relazione all’esposizione a traumi materni e paterni e al PTSD. Attualmente lo stato della scienza in relazione alla prole umana è che gli studi non hanno ancora dimostrato in modo definitivo la trasmissione epigenetica degli effetti del trauma nell’uomo.

Tuttavia, i risultati ottenuti nei modelli animali implicano meccanismi epigenetici nella trasmissione degli effetti dello stress attraverso le cellule germinali. Inoltre, hanno creato molto fermento riguardo la possibilità che meccanismi epigenetici possano operare nell’uomo. L‘identificazione delle prove dei meccanismi epigenetici richiederà studi prospettici, longitudinali e multigenerazionali. Studi paralleli sugli animali permetteranno di chiarire in modo più rigoroso gli effetti di esperienze e meccanismi epigenetici specifici attraverso studi di cross-fostering e di fecondazione in vitro.

La ricerca sull’ereditarietà epigenetica degli effetti del trauma deve affrontare molte complessità scientifiche e metodologiche, per non parlare delle questioni concettuali relative all’interpretazione degli effetti trasmessi. Questa rassegna non ha esaminato il contributo dei fattori genetici alle alterazioni epigenetiche legate ai traumi. Bensì, gli studi futuri dovrebbero incorporare una comprensione dei fattori genetici e ambientali che aumentano o attenuano gli effetti sulla prole.

Altre aree di studio future riguardano la rilevanza dell’età o dello stadio di sviluppo dell’esposizione al trauma dei genitori per gli effetti sulla prole. Inoltre, l’idea che la prole maschile e femminile possa essere colpita in modo diverso dal trauma materno e paterno. Inoltre, esiste una letteratura molto piccola, ma emergente, che riguarda la potenziale inversione degli effetti intergenerazionali e le loro implicazioni per la resilienza.

Attualmente, il campo non ha affrontato a sufficienza il significato della trasmissione intergenerazionale degli effetti del trauma per la prole. Si potrebbe sostenere che questa trasmissione sia indicativa di una maggiore vulnerabilità. D’altra parte, questa trasmissione potrebbe estendere le capacità di adattamento della prole attraverso una preparazione biologica a circostanze avverse simili a quelle incontrate dai genitori. In definitiva, l’utilità potenziale e l’eventuale stabilità di un tratto indotto dall’ambiente e trasmesso alla progenie dipenderà dal contesto ambientale della progenie stessa.

Questa rassegna mette in luce alcune delle complessità insite nel fare inferenze sui meccanismi epigenetici alla base della trasmissione intergenerazionale e transgenerazionale. È indiscutibile che le persone si sentano influenzate dalle conseguenze dell’esposizione al trauma nelle generazioni precedenti. L’affermazione che un effetto è veramente transgenerazionale richiede di escludere l’esposizione diretta della prole come meccanismo causale. Quindi, per le femmine, i tratti devono essere osservati nelle femmine F3 per essere considerati transgenerazionali. Questo perché la prole femminile F1 è esposta al fattore di stress durante la gestazione attraverso l’ambiente intrauterino.

Questo può, a sua volta, influenzare la programmazione della linea germinale del feto F1, che sarà osservata nella sua progenie F2. Solo la prole F3 della madre originariamente esposta non sarebbe stata direttamente esposta al fattore di stress. Nei maschi, la F1 può essere influenzata dalla linea germinale del padre F0 esposto. Tuttavia, lo sperma non viene generato nel feto (come gli ovuli nelle femmine). Quindi, la trasmissione dei tratti associati al trauma alla F2 sarebbe considerata una trasmissione transgenerazionale.

Queste linee guida dovrebbero essere tenute a mente quando si studiano gli effetti del trauma sulla prole nella generazione successiva e in quelle successive. Il concetto di trasmissione intergenerazionale ha avuto grande risonanza tra i figli che si sentono colpiti dall’esperienza dei genitori. Il concetto è stato abbracciato anche dalle comunità che sono state colpite da esperienze traumatiche significative attraverso diverse generazioni. Il fatto che possa esistere una rappresentazione biologica o molecolare di un effetto intergenerazionale sembra convalidare l’esperienza dei figli che sentono di subire gli effetti delle difficoltà dei genitori. Anche se, il concetto può anche implicare che siano danneggiati, menomati o permanentemente svantaggiati. È anche importante sottolineare la mancanza di permanenza degli effetti una volta che le condizioni ambientali sono state modificate.

La ricerca continua in questo campo probabilmente rivelerà che i cambiamenti epigenetici indotti sono un riflesso dell’esposizione ambientale. Quindi, per definizione, malleabili. Anche i cambiamenti potenzialmente ereditabili possono essere modificati. Perché l’ambiente cambia. Il ruolo della genetica nel mediare gli effetti epigenetici indotti dall’ambiente rimane una frontiera importante. Indipendentemente da ciò, il principio della plasticità epigenetica implica che i cambiamenti dell’epigenoma potrebbero ripristinarsi. Quando gli attacchi ambientali non sono più presenti o quando siamo cambiati a sufficienza per affrontare le sfide ambientali in un nuovo modo. La capacità di rispondere in modo flessibile agli stimoli ambientali è fondamentalmente adattativa e costituisce la base della resilienza umana.

 

Fonte: Y,  R, Lehrner A. Intergenerational transmission of trauma effects: putative role of epigenetic mechanisms. World Psychiatry. 2018 Oct;17(3):243-257. doi: 10.1002/wps.20568. 

 

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